Mi rizzai a sedere di scatto. Ero a letto. Era ancora giorno. Al piano di sotto il telefono stava squillando. «Non preoccuparti, ci penso io» disse qualcuno. Mi voltai a guardare: accanto alla porta, gli occhi smorti rivolti pensosamente verso di me, la Regina Guerriera chiuse un libro. Era uno di quelli che avevo dato a Zack. «E tutta la notte e tutta la mattina che quel telefono suona. È Hovre. C'è qualcosa di cui vuole parlarti. È stata una disgrazia?» Nel pronunciare quell'ultima frase, inclinò leggermente la testa all'indietro e mutò l'intonazione della voce. Nei suoi occhi lessi la paura di un grande tradimento.

«Che cosa è successo?»

«Meno male che non stavi fumando, altrimenti avremmo trovato brandelli del tuo corpo fin sul tetto del granaio dei Korte.»

«Ma si può sapere che cos'è successo?»

«Hai lasciato tu il gas aperto? Di proposito, intendo.»

«Che cosa? Quale gas?»

«Quello della cucina, stupido. È rimasto aperto quasi tutta la notte. La signora Sunderson dice che ti sei salvato soltanto perché eri quassù. Ho dovuto rompere la finestra della cucina.»

«E chi l'ha aperto?»

«È quello che ci siamo chiesti tutti. La signora Sunderson sostiene che volevi suicidarti. Dice che avrebbe dovuto immaginarlo.»

Mi strofinai la faccia. Non ero graffiato. E la mia mano sinistra era ancora fasciata. «Accendi la luce» dissi.

«Niente da fare. È saltata. Oppure se ne è andata. O tutte e due. Ragazzi, avresti dovuto sentire l'odore che c'era in cucina. Era così dolce.»

«Penso di averlo sentito anche da quassù» dissi io. «Ero seduto alla scrivania, poi, ad un certo punto mi sono trovato lungo disteso sul pavimento. È stato quasi come se fossi uscito dal mio corpo.»

«Be', se non sei stato tu, ci sarà stato un guasto.» Sembrava sollevata. «C'è qualcosa di strano in questa casa. Due sera fa, quando sei rientrato, all'improvviso si sono accese tutte le luci.»

«L'hai visto anche tu?»

«Ah-ah. Ero in camera mia. E ieri sera si sono spente tutte contemporaneamente. Mio padre dice che in questa casa c'è sempre stato un pessimo impianto elettrico.»

«Ma tu non dovresti stare alla larga da me?»

«Ho promesso che sarei venuta via non appena tu ti fossi ripreso. Capisci, sono stata io a trovarti. Il buon vecchio Hovre ci ha chiamati a casa, dicendo che non rispondevi al telefono. Ha detto che aveva delle notizie importanti da darti. Mio padre stava dormendo e così sono venuta io. Era tutto chiuso a chiave, tranne la veranda. Ho tirato su la finestra della camera da letto ed è stato in quel momento che ho sentito l'odore di gas. Allora ho fatto il giro della casa e ho rotto il vetro della cucina. Dopo un po' sono venuta qui di sopra. Tu eri disteso sul pavimento dell'altra stanza e ho aperto la finestra anche lì. Ci è mancato poco che vomitassi.»

«Che ora era?»

«All'incirca le sei. O forse un po' prima.»

«E tu eri ancora in piedi a quell'ora?»

«Ero appena rientrata da un appuntamento. Comunque, ho aspettato di vedere se eri vivo e poi è arrivata la signora Sunderson, alla quale non è parso vero di precipitarsi al telefono e di chiamare la polizia. Era convinta che l'avessi fatto apposta. Insomma, che avessi cercato di ucciderti. Ha detto che torna domani. Se vuoi che venga anche oggi, devi telefonarle. Nel frattempo ho detto al vecchio Hovre che non appena ti fossi sentito meglio, l'avresti chiamato.»

«Grazie» dissi io. «Grazie per avermi salvato la vita.»

Lei scrollò le spalle, poi sorrise. «Di questo devi ringraziare soprattutto Hovre. E stato lui a telefonarmi. E se non ti avessi trovato io, dopo un po' ti avrebbe trovato Tuta Sunderson. Non eri ancora in punto di morte.»

Io inarcai le sopracciglia.

«Be', ti muovevi e facevi un sacco di rumore. Mi hai perfino riconosciuto.»

«Che cosa intendi dire?»

«Che mi hai chiamato per nome, o almeno così mi è parso.»

«Tu pensi che io abbia davvero cercato di suicidarmi?»

«No, non lo credo.» Sembrava sorpresa. Si alzò e si mise il libro sotto il braccio. «Io penso che tu sia troppo intelligente per fare una cosa del genere. Oh, quasi me ne dimenticavo, Zack ti ringrazia per i libri. Ha detto che vuole vederti di nuovo. Presto.»

Io annuii.

«Sei sicuro di stare bene?»

«Sì, sono sicuro. Grazie Alison.»

Quando fu sulla porta, si fermò e si voltò a guardarmi. Aprì la bocca, poi la richiuse, ma alla fine si decise a parlare. «Sono felice che tu adesso stia bene. Dico sul serio.»

Il telefono cominciò a squillare di nuovo. «Non ti preoccupare per il telefono. Lascia che suoni» dissi io. «Prima o poi risponderò. Tanto è Orso Polare che vuole invitarmi a cena. E Alison ... sono molto felice che tu sia rimasta qui.»

 

«Aspetta che ci mettiamo comodi, prima di cominciare a farmi domande serie» disse Galen Hovre due sere dopo, mettendo alcuni cubetti di ghiaccio in una ciotola. La mia intuizione si era rivelata esatta, almeno in parte. Ero seduto su un'ampia poltrona, fin troppo imbottita, nel salotto del capo della polizia, che abitava ad Arden, nel quartiere in cui avevo parcheggiato la Nash. Quella di Hovre era una casa adatta ad ospitare un'intera famiglia, ma lui ci viveva da solo. Su una delle poltrone erano ammucchiati i quotidiani di parecchie settimane; la stoffa rossa del vecchio divano era logora e unta, e il tavolino era cosparso di lattine di birra vuote. Dallo schienale di un'altra poltrona pendeva il cinturone con la pistola. Il tappeto, di colore verde, mostrava, qua e là, aloni scuri, frutto, apparentemente, di timidi tentativi di rimuovere alcune macchie. Sui due tavolini ai lati del divano, due lampade con la base a forma di uccello acquatico, diffondevano una luce smorta e giallastra. I muri erano di color marrone scuro. Era chiaro che la signora Hovre, chiunque ella fosse stata, aveva fatto il possibile per rendere la sua casa originale. Alle pareti erano appesi due quadri che, ero pronto a scommetterci, non erano stati scelti dalla suddetta signora: il primo era una fotografia incorniciata di Galen in camicia a scacchi e cappello da pescatore, che mostrava con orgoglio un canestro pieno di trote; il secondo era una deprimente riproduzione di uno dei girasoli di Van Gogh. «In genere io bevo un bicchierino, dopo cena. Vuoi un po' di bourbon, un po' di bourbon o un po' di bourbon?»

«Perfetto» dissi io.

«Aiuta a mandar giù la sbobba» riprese lui, anche se devo ammettere che la sua più che dignitosa abilità culinaria mi aveva sorpreso non poco. Mi aveva preparato un brasato, forse non proprio sopraffino, ma certo assai migliore di quello che immaginavo fosse capace di cuocere un poliziotto di centoventi chili con l'uniforme tutta sgualcita. Avrei visto più nel suo stile due bistecche di cervo bruciacchiate: più virile forse, ma senz'altro meno appetitoso del brasato.

Una delle ragioni per cui mi aveva invitato a cena mi era stata chiara fin dall'inizio: Orso Polare era un uomo solo e me lo aveva dimostrato chiacchierando a ruota libera per tutta la durata del pasto. Non una parola a proposito del mio presunto tentativo di suicidio o sulla morte delle due ragazze: aveva parlato solo ed esclusivamente di pesca. Attrezzatura, ami, pesca in mare e pesca d'acqua dolce, barche e «La gente del Lago Michigan sostiene che i salmoni che si pescano da loro sono il non plus ultra, ma tu dimmi che cosa c'è di meglio di una trota di fiume.» Oppure «Naturalmente non esiste uno sport paragonabile alla pesca con la mosca secca, ma qualche volta mi piace prendere la mia vecchia canna da lancio e starmene seduto vicino ai bassifondi ad aspettare che qualche bell'esemplare abbocchi.» Erano i tipici discorsi di chi, per motivi vari, è costretto a rinunciare ad un cordiale scambio di chiacchiere con i suoi simili e ne sente terribilmente la mancanza. Così, fra una fetta e l'altra di carne di manzo, accompagnata da un abbondante contorno di verdure, Orso Polare si era abbandonato ad un lento sfogo verbale, che lo aveva aiutato ad allentare la tensione.

Finita la cena, lo sentii ammucchiare i piatti sporchi nell'acquaio e farvi scorrere sopra l'acqua. Un attimo dopo rientrò in salotto con una bottiglia di Wild Turkey sotto il braccio, una ciotola di porcellana piena di ghiaccio in una mano e due bicchieri nell'altra.

«Mi ha colpito una cosa» dissi, mentre lui, grugnendo, si chinava sul tavolino e vi appoggiava di malagrazia i bicchieri, il ghiaccio e la bottiglia.

«Che cosa?»

«Che siamo tutti uomini soli, cioè senza compagne. Mi riferisco a noi quattro, che un tempo ci frequentavamo: Duane, Paul Kant, tu ed io. Tu una volta eri sposato, mi sembra, o no?» Bastava guardare i mobili e le pareti marroni per capirlo. Mi accorsi che la sua casa era simmetrica a quella di Paul, con la sola differenza che quella di Orso Polare rifletteva il gusto di una donna più giovane, di una moglie e non di una madre.

«Sì, una volta» disse mentre, dopo essersi versato due dita di bourbon sul ghiaccio, si abbandonava contro lo schienale del divano e appoggiava i piedi sul tavolino. «Come te. Mia moglie se ne è andata molto tempo fa, lasciandomi solo con un bambino. Nostro figlio.»

«Non sapevo che avessi un figlio.»

«Oh, sì. L'ho allevato io. Vive anche lui qui ad Arden.»

«Quanti anni ha?»

«Quasi venti. Sua madre se ne è andata che lui era piccolissimo. Era una buona a nulla. Il mio ragazzo non ha studiato molto, ma è sveglio e lavora qui intorno come operaio. Ha anche una casa tutta sua. A me piacerebbe che entrasse nella polizia, ma lui la pensa diversamente. Comunque è un bravo ragazzo. Crede nella legge e la rispetta, non come certa marmaglia della sua età. »

«Perché né tu né Duane vi siete più risposati?» Mi servii di bourbon da solo.

«Forse perché ho imparato la lezione. È dura per una donna avere per marito un poliziotto. Chi fa il nostro mestiere non smette mai di lavorare, se capisci quello che voglio dire. E poi non ho trovato nessuna altra donna di cui potermi fidarmi. Per quanto riguarda il buon Duane, non penso che a lui le donne siano mai andate a genio. Ha sua figlia che gli fa da mangiare e che gli tiene in ordine la casa e questo è tutto quello che gli interessa.»

Mi rendevo conto che Orso Polare stava facendo di tutto per farmi sentire a mio agio, per convincermi, insomma, che quello non era che un casuale rendez-vous fra due vecchi amici. Lo osservai dalla mia poltrona: la luce del lampadario inargentava la cute spessa del suo cranio quasi interamente pelato. Aveva gli occhi socchiusi.

«Sono d'accordo con te. Anch'io penso che odi le donne. Forse è lui l'assassino che cerchi.»

Orso Polare scoppiò in una fragorosa risata. «Ah-ah, Miles, Miles! Duane non ha sempre odiato le donne. Una volta ce n'è stata una che l'ha addirittura conquistato.»

«Intendi la ragazza polacca.»

«Non esattamente. Perché pensi che abbia dato quel nome a sua figlia?»

Io sgranai tanto d'occhi e mi accorsi che dietro quell'aria addormentata Orso Polare mi stava studiando attentamente.

«Proprio così» disse. «E penso anche che si sia sverginato con quella piccola Alison Greening. Tu non eri qui tutte le estati che c'era lei, capisci. Era cotto di lei, intendo dire cotto come una pera. Forse lei è andata a letto con lui, o forse, cosa più probabile, l'hanno fatto in piedi dietro un mucchio di fieno. Ma lei era troppo giovane per rendere pubblica la cosa e in ogni caso lo trattava sempre come un pezzo di merda. Praticamente l'ha distrutto. Ho sempre pensato che fosse per quello che si era fidanzato con quella ragazza polacca.»

Non mi ero ancora ripreso dallo shock. «Hai detto che ha perso la verginità con Alison?»

«Proprio così. Me lo ha detto lui stesso.»

«Ma Alison non poteva avere più di tredici anni.»

«È esatto. Ma Duane mi ha detto che riguardo al sesso ne sapeva molto più di lui.»

Mi venne in mente la storia dell'insegnante di disegno. «Non posso crederci. Lui ti ha mentito. Lei si è sempre presa gioco di lui.»

«Anche questo è vero. Duane soffriva come un cane nel vedere che preferiva te a lui tutte le volte che venivi su in vacanza. Era geloso, geloso matto.»

Si piegò in avanti, sopra la pancia prominente, e si versò ancora un po' di bourbon, ma senza aggiungere altro ghiaccio. «Adesso capisci perché è meglio che tu non vada a dire in giro quel nome. Duane potrebbe dedurne che vuoi deliberatamente rigirare il coltello nella piaga. Per non parlare del fatto che dovresti anche pensare a proteggere te stesso. Detesto fare il padre spirituale, Miles, ma credo che faresti meglio a farti vedere in chiesa la domenica. Forse la gente smetterà di essere così dura con te se vedrà che ti comporti come tutti gli altri. Ti siedi su una panca e ti sorbisci un po' della saggezza di Bertilsson. È curioso vedere come quel topo svedese abbia conquistato tutti i norvegesi della valle. Per me non vale una cicca, ma i contadini lo adorano. Ultimamente è anche venuto fuori con una strana storia: mi ha detto che secondo lui tu hai rubato qualcosa da Zumgo's. Un libro, mi pare.»

«Ridicolo.»

«È quello che gli ho detto anch'io. Cambiando argomento, Miles, sembra che molti siano convinti che, un paio di giorni fa, tu abbia tentato il suicidio. Immagino che non ci sia un briciolo di verità in tutto questo.»

«Infatti. O è stato un caso fortuito, oppure qualcuno ha cercato di uccidermi. O forse voleva solo avvertirmi di lasciar perdere.» Per un attimo, rivissi mentalmente lo sforzo di rizzarmi a sedere.

«Lasciar perdere che cosa? Non sei mica un poliziotto impegnato in un'indagine. In ogni caso sono contento che non avesse a che vedere con la nostra chiacchierata dell'altro giorno.»

«Senti, Orso Polare, tuo padre non ha mai scoperto chi gli telefonò la sera in cui mia cugina affogò?»

Lui scosse la testa contrariato. «Non metterti in testa strane idee Miles. Quella è roba di vent'anni fa: non ha niente a che vedere con quello che sta accadendo adesso.»

«Tu rispondi alla mia domanda. L'ha mai scoperto?»

«Dannazione Miles!» Tracannò quello che restava del suo drink e, con un grugnito, si piegò in avanti per versarsene un altro. «Non ti ho appena detto di lasciar perdere? No, per quanto ne so io, non l'ha mai scoperto. Ti basta questo? Allora, stavi dicendo che la storia del gas è stata una disgrazia, giusto?»

Io annuii, chiedendomi dove volesse andare a parare con la strana conversazione di quella sera. Dovevo assolutamente parlare a Duane.

«Anch'io penso che sia stato solo un banale incidente. Certo, sarebbe stato meglio che Tuta Sunderson fosse rimasta all'oscuro della cosa, perché adesso andrà in giro a raccontare a tutti la sua versione dei fatti e, come sai, lei non è molto tenera quando si tratta di te. E invece, adesso, noi dobbiamo fare in modo che tu non sia più al centro dell'attenzione di tutti gli abitanti della valle. Non ne prendi un altro goccio?»

Il mio bicchiere era vuoto.

«Forza, fammi compagnia. Io devo farmi qualche bicchierino tutte le sere, altrimenti non riesco a dormire. Se Lokken ti arresterà per guida in stato di ebbrezza, ci penserò io a strappare la tua multa.»

Il suo grande viso rugoso si scompose in un sorriso. Mi versai due dita di bourbon nel bicchiere e vi aggiunsi una manciata di cubetti di ghiaccio. A quanto pareva, per Orso Polare bere whisky era come bere Coca-Cola.

«Vedi Miles, io sto cercando di fare di tutto per tenerti fuori dai guai. A me piace parlare con te. Ci conosciamo da tanto tempo. E poi non posso certo invitare a casa mia qualche rispettabile cittadino di Arden e fargli vedere il capo della polizia che si sbronza, ti pare? Noi due ci intendiamo. Tu mi perdoni la storia di Larabee e io ascolterò qualsiasi cosa tu abbia da dirmi. Farò anche finta di non sapere niente del libro che hai sgraffignato da Zumgo's. Chissà quante cose avevi per la testa in quel momento.»

«Come la storia delle lettere anonime, per esempio.»

«Proprio così. O la morte di tua moglie. E in più adesso abbiamo un altro problema, un problema per cui è meglio se te ne stai tranquillo e non dai nell'occhio. Ok?»

«Un altro problema.»

Orso Polare sorseggiò il suo whisky e lasciò scivolare lo sguardo su di me, come un consumato giocatore di poker. «Era la cosa di cui volevo parlarti l'altra sera. Stai tremando, Miles? Come mai?»

«Non ti preoccupare. Vai avanti». Ero un pezzo di ghiaccio, come la vecchia cucina della fattoria della nonna. «Tanto è quello a cui volevi arrivare fin dall'inizio della serata.»

«Questo non è giusto, Miles. Io sono un poliziotto e sto cercando di risolvere un caso. Il problema è che si complica ogni giorno di più.»

«Ce n'è un'altra, » dissi io. «Un'altra ragazza assassinata.»

«Forse. Sei stato molto intelligente a cavarmelo di bocca, perché stiamo cercando di tenerlo segreto, per il momento. Non è come le altre volte. Non abbiamo ancora il cadavere.»

Serrò la mano e vi tossì dentro, in modo da prolungare l'attesa e accrescere la suspence. «In realtà non sappiamo nemmeno se ci sia un cadavere. Sappiamo soltanto che l'altra sera è scomparsa una ragazza di diciassette anni, tale Candice Michalski, una bel tipo di figliola. Due o tre ore dopo che ti ho lasciato davanti alla Nash, a un paio di isolati da qui. Aveva detto ai suoi genitori che sarebbe andata al Bowling - ci siamo passati davanti uscendo di città, ti ricordi? - e non è più tornata a casa. Veramente, non è nemmeno mai arrivata al Bowl-A-Rama.»

«Forse è scappata di casa.» Mi tremavano le mani e mi ci sedetti sopra.

«Non era il tipo. Era un'ottima studentessa ed era anche membro dei Futuri Insegnanti d'America. Aveva vinto una borsa di studio per andare a River Falls l'anno prossimo. Sai, adesso fa parte del sistema universitario statale. Anch'io ci ho seguito alcuni corsi di criminologia anni fa. Era una brava ragazza, Miles, non di quelle che scappano.»

«È curioso», osservai io. «E curioso come la storia si ripeta. Abbiamo appena parlato di Alison Greening alla quale ... alla quale io penso ancora spesso, e che sia tu che Duane conoscevate, e del fatto che la gente di qui si ricorda ancora della sua morte...»

«Veramente tu e Duane la frequentavate molto più di me.» Rise. «Comunque devi togliertela dalla testa, Miles.»

Il mio corpo fu percorso da un brivido. «E una ragazza con il cognome polacco lascia la città o scompare, come la vecchia fiamma di Duane...»

«E tu trasformi la casa di tua nonna in un museo» mi interruppe Orso Polare brutalmente. «Okay, ma non riesco a capire dove tutto questo ci porti. Be', ecco quello che ho pensato di fare. Ho detto ai Michalski, che, come puoi bene immaginare sono fuori dalla grazia di Dio, di stare tranquilli e di non raccontare a nessuno della scomparsa di Candy. Dovranno dire semplicemente che è andata a trovare una zia a Sparta o che so io. Voglio che la gente di Arden resti all'oscuro della cosa il più a lungo possibile. Chi lo sa, magari un giorno ricevono una cartolina della figlia da una colonia di nudisti. Con i ragazzi d'oggi non si può mai sapere. Magari, invece, troviamo il suo corpo; e se è morta, forse riusciamo a mettere le mani sul suo assassino prima che si verifichino scene di isteria collettiva. Vorrei che fosse un arresto pulito e tranquillo e penso che anche l'assassino lo vorrebbe. Per lo meno con la parte sana della sua mente.» Si alzò dal divano, si portò le mani alle reni e si stirò. Assomigliava ad un orso vecchio e stanco a cui fosse appena sfuggito un pesce. «Ma come mai ti è venuto in mente di andare da Zumgo's a rubare? È stata un'idiozia. Il modo migliore per convincere la gente che sei un tipo da manicomio.»

Io scossi la testa. «Bertilsson si sbaglia. Io non ho rubato un bel niente.»

«Ti confesserò una cosa, Miles. Vorrei tanto che quel ragazzo venisse e mi dicesse sono stato io, pensaci tu. Lui vuole che io lo arresti, capisci? Vorrebbe tanto essere seduto dove sei seduto tu adesso. Il rimorso gli rode l'anima e sta per crollare. Non può fare a meno di pensare a me. Forse ha già ucciso Candy, o forse la tiene nascosta da qualche parte. Forse, adesso che l'ha rapita non sa che cosa farne. Si è cacciato davvero in un brutto guaio, poveretto. Dico poveretto, perché a me quel bastardo fa pena. Lo dico sul serio, Miles. Se qualcuno dovesse suicidarsi, la prima cosa che penserei sarebbe: era lui il colpevole e io me lo sono lasciato sfuggire. Ho perso, dannazione, ma ha perso anche lui. Che ore sono?»

Guardai il mio orologio. Orso Polare si avvicinò ala finestra e guardò fuori, appoggiandosi al vetro. «Le due.»

«Non riesco mai ad addormentarmi prima delle quattro o delle cinque. Anch'io mi sento sotto pressione, proprio come l'assassino. Adesso l'odore di polvere da sparo era particolarmente intenso e si mescolava a quello di pelle non lavata. Mi chiesi se Orso Polare si cambiasse mai l'uniforme. «Come procede quel lavoro a cui mi hai accennato? Viene bene?»

«Sì, direi di sì.»

«Di che cosa si tratta?»

«È una ricerca storica.»

«Hum, bene. Comunque penso che avrò ancora bisogno del tuo aiuto. Spero che resterai qui con noi fino a quando sarà tutto risolto.»

Stava fissando la mia immagine riflessa nel vetro della finestra. Io spostai lo sguardo dalla sua pistola allo schienale della poltrona.

Dissi: «Che cosa intendevi dire l'altro giorno quando hai detto che non si tratta di un normale stupratore? Pensi che sia impotente?»

«Be', vedi, Miles» disse Orso Polare ritornando lentamente sui suoi passi per poi andarsi ad appoggiare allo schienale del divano. «Io la violenza carnale la capisco. E sempre esistita ed esisterà sempre. Ti dico quello che non potrei mai dire ad una donna. Tutti e due i casi delle ragazze uccise non hanno niente a che vedere con lo stupro. Chi ha commesso questi omicidi è qualcuno malato nel cervello. Dal mio punto di vista, la violenza carnale non è una cosa perversa ... è quasi una cosa normale. Una ragazza fa perdere la testa a un ragazzo, lui non riesce più a controllarsi e dopo lei grida "mi ha violentato!". Il modo in cui si vestono le ragazze d'oggi è un vero e proprio incitamento allo stupro. E anche il modo in cui molte di loro guardano i ragazzi. Così, può capitare che qualche giovanotto non capisca che cosa vogliono veramente certe ochette sculettanti: si lascia sopraffare dall'eccitazione e non riesce a trattenersi. E la colpa di chi è? Di tutti e due. Non è un'opinione molto condivisa oggigiorno, ma è la verità. Sono parecchi anni che faccio il poliziotto e ne ho visto almeno un centinaio di casi del genere. Il potere, dicono. Certo, il potere. Tutta la nostra vita è basata sul potere. Comunque questi due stupri non sono stati commessi da un uomo normale. Capisci, non c'è stato rapporto sessuale fra le vittime e il loro aggressore: il dottor Hampton, il medico dell'ospedale di Blundell che ha praticato l'autopsia, non ha trovato tracce di sperma su nessuno dei due cadaveri. Le ragazze sono state violate con altri mezzi.»

«Che cosa significa con altri mezzi?» gli chiesi io, anche se non ero affatto sicuro di volerlo sapere.

«Una bottiglia. Una bottiglia di Coca. Ne abbiamo trovata una rotta accanto ad entrambi i cadaveri. Sulla Strand è stato usato anche qualche altro oggetto: il manico di una scopa, sembra, o qualcosa di simile. La stiamo ancora cercando nel campo vicino alla 93. Poi tutte e due le ragazze presentavano ferite da arma da taglio. Dalle ecchimosi che hanno su tutto il corpo, sembra anche che siano state picchiate selvaggiamente prima di essere stuprate.»

«Oh, Cristo.»

«Per cui, in teoria, l'assassino potrebbe essere perfino una donna, anche se l'ipotesi mi sembra tirata per i capelli. In primo luogo è difficile immaginare che una donna possieda tutta quella forza e poi non mi sembra una cosa che può compiere una donna, non credi? Bene, adesso ne sai tanto quanto ne sappiamo noi.»

«Non crederai davvero che Paul Kant possa aver commesso un orrore simile, vero? E impossibile.»

«Che cos'è impossibile Miles? Potrei essere stato io, oppure potresti essere stato tu, o Duane. Per Paul non ci sono problemi, finché se ne sta in casa e si tiene fuori dai guai.»

Orso Polare si raddrizzò e andò in cucina. Udii un forte gorgoglio e capii che stava facendo i gargarismi. Quando ritornò in salotto aveva la giacca dell'uniforme slacciata, sotto la quale portava una maglietta senza maniche che gli tirava sulla pancia. «Hai bisogno di dormire, Miles. Sta attento a non uscire di strada mentre torni a casa. È stata una bella serata. È servita a conoscerci meglio. E adesso vattene.»

 

Dietro le spesse lenti degli occhiali, Tuta Sunderson strabuzzò gli occhi. Affondò con rabbia le mani nelle tasche del cardigan grigio; era di pessimo umore. Nei tre giorni successivi alla mia conversazione notturna con Orso Polare, lei era arrivata tutte le mattine con il broncio, aveva preparato la colazione senza spiaccicare parola, e poi aveva rumorosamente rassettato la cucina e il bagno, mentre io cercavo invano di sistemare i mobili del salotto. Il vecchio divano di bambù e quello di stoffa andavano sulla parete di fondo, alla sinistra dei piccoli scaffali. Il mobile con gli sportelli di vetro, in cui un tempo venivano custodite le bibbie e i libri di Lloyd C. Douglas, si inseriva naturalmente sul lato più corto della stanza, accanto alla porta della veranda; la sola cosa che assomigliasse ad una poltrona trovava la propria ideale collocazione su quella stessa parete, dalla parte opposta della porta. E tutto il resto? Le sedie e i tavolini mi sembravano decisamente troppi per poter essere contenuti tutti in quella stanza: il tavolinetto con le gambe lunghe e sottili, per esempio, con il portariviste incorporato; oppure una certa sedia con lo schienale a canne di bambù. C'erano almeno cinque o sei pezzi che non ricordavo neppure di aver mai visto in quel salotto e, tanto meno, come fossero disposti. Chiesi aiuto a Tuta, ma senza risultato.

«Non erano messi sempre nello stesso modo. Non esiste un modo giusto e uno sbagliato.»

«Provi a pensarci. Cerchi di ricordare.»

«Mi sembra che quel tavolino lì fosse a fianco del divano.» Cercava di accontentarmi, ma lo faceva controvoglia.

«Qui?» lo collocai sotto gli scaffali.

«No, un po' più in fuori.»

Lo spostai in avanti.

«Se fossi al posto di Duane io ti farei visitare dal dottore dei matti. Ha speso quasi tutti i soldi del risarcimento per comprare quei bei mobili che tu hai portato in cantina. Quando lo dissi a mio figlio Red, anche lui andò giù al negozio e ci fece dei buoni affari.»

«Quando me ne andrò, Duane potrà cambiare tutto di nuovo se vorrà. Non mi sembra che il tavolino vada bene lì.»

«Secondo me sì.»

«Perché lei non capisce.»

«Sono tante le cose che non capisco. Non finirai mai di scrivere il tuo libro se continuerai ad occuparti di questo salotto tutto il giorno.»

«Perché non mi cambia le lenzuola o non fa qualcos'altro? Se non può aiutarmi per lo meno si tolga dai piedi.»

Ebbi l'impressione che il suo viso si riempisse d'acqua, come un sacco.

«Vedo che hai lasciato le buone maniere a New York, Miles». Detto questo, decise di lasciarmi perdere, per il momento, e si mise a guardare fuori dalla finestra. «Quanto pensi che ci vorrà prima che ti aggiustino la macchina?»

«Mi hanno detto di telefonare fra qualche giorno.»

«Dopodiché te ne andrai?» Allungò il collo per vedere qualcosa sulla strada.

«No, Orso Polare vuole che resti. Evidentemente la sua abituale compagnia gli è venuta a noia.»

«Tu e Galen siete parecchio legati, eh?»

«Come fratelli.»

«Non aveva mai invitato nessuno prima a casa sua. In genere se ne sta per conto suo. È un tipo in gamba. Ho saputo che hai fatto un giro con lui sulla macchina della polizia. Non so chi vi ha visti e l'ha detto a Red.»

Spostai una sedia dietro lo scaldaolio, poi, insoddisfatto di quella soluzione, la avvicinai alla porta della camera da letto. «Sembra che oggi non abbia altro che macchine per la testa.»

«Forse perché ne ho appena vista una fermarsi proprio davanti alla tua cassetta delle lettere. Qualcuno è sceso a metterci dentro qualcosa, ma non era il postino. Non era la sua macchina. Perché non esci un po' fuori al caldo e intanto ne approfitti per andare a vedere di che cosa si tratta?»

«Adesso che me lo dice» risposi e mi avviai verso la veranda. Uscii nella luce del sole. Negli ultimi due giorni, Tuta Sunderson aveva preso l'abitudine di indossare un cardigan grigio mentre lavorava, in parte per farmi innervosire con quella stranezza di un maglione di lana in piena estate, in parte perché la fattoria era davvero fredda e umida: era come se una brezza spirasse dal bosco e si accampasse attorno alla casa per stringerla in un assedio gelido. Mentre mi allontanavo sentii Tuta che diceva, a voce abbastanza alta perché potessi sentirla: «Sarà una lettera di qualcun altro dei tuoi ammiratori.»

Guarda caso, aveva proprio ragione: era una lettera di uno dei miei tanti fan di Arden. Era un foglio singolo di carta a righe di bassa qualità, strappato da un quaderno di scuola. In mezzo, in stampatello, c'era scritto: BASTARDO, NOI TI VEDIAMO. Sì, proprio come nei film. Mi voltai a guardare la strada e vidi il nulla che mi aspettavo di vedere. Appoggiai le braccia alla cassetta e vi lasciai ciondolare in mezzo la testa; poi, nel tentativo di ritornare padrone dei miei nervi, cominciai ad inspirare profondamente. Nei due giorni precedenti avevo ricevuto due telefonate anonime: al mio pronto nessuno aveva risposto, solo un respiro soffocato che sapeva di cipolla, di formaggio e di birra. Tuta Sunderson mi aveva detto che Arden era tutta in subbuglio e io immaginai che si fosse sparsa la voce della scomparsa della ragazza polacca. Dal suo comportamento, che era diventato assai più brusco dal giorno del mio "tentato suicidio", capii che anche lei vi aveva prestato orecchio.

Mentre ritornavo alla fattoria mi accorsi che mi stava guardando dalla finestra con aria trasognata, ma quando entrai, sbattendo la porta della veranda, si precipitò verso la credenza e finse di spolverare gli scaffali.

«Immagino che non abbia riconosciuto la macchina.»

Le sue braccia grasse e flaccide sussultavano e, come per simpatia, il suo didietro ballonzolava al medesimo ritmo. «Non apparteneva a nessuno della valle. Conosco tutte le macchine delle persone che abitano in questa zona.» Mi sbirciò al di sopra della spalla rotonda: era chiaro che moriva dalla voglia di sapere che cosa avessi trovato nella cassetta delle lettere.

«Di che colore era?»

«Era tutta impolverata, non sono riuscita a vederlo.»

«Lo sa, signora Sunderson» dissi io, scandendo le parole in modo che non gliene sfuggisse neppure una. «Se è stato suo figlio o uno dei suoi amici, a venire qui l'altra notte ad aprire le manopole del gas, ha commesso un reato molto grave, che si chiama tentato omicidio. La legge prevede pene estremamente severe per chi si macchia di questo crimine.»

Non so se più furente o sconcertata, Tuta Sunderson si voltò di scatto, come se l'avesse morsa una vipera. «Mio figlio non è mica uno che si intrufola di notte in casa degli altri come un ladro!»

«Ma davvero?»

Lei si girò di nuovo e prese a spolverare i piatti con tale vigore che vibrarono minacciosamente. Dopo un attimo si degnò di rivolgermi di nuovo la parola, ma non di guardarmi in faccia. «Si dice che siano successi dei fatti nuovi e si dice anche che Galen Hovre stia per mettere le mani sull'assassino. Sembra che sappia molte più cose di quanto ci voglia far credere. Poi mi lanciò un'altra occhiata strabica e aggiunse: «Si dice anche che Paul Kant non metta piede fuori casa da giorni, neppure per andare a comperarsi da mangiare. Così se accade di nuovo, tutti sapranno che non è lui il colpevole.»

«Che giornate campali stanno vivendo gli abitanti di Arden! Però penso che, tutto sommato, si stiano divertendo un mucchio. Sotto sotto li invidio.»

Tuta scosse rabbiosamente la testa e io stavo per dire un'altra battuta in quello stesso tono, quando il telefono squillò. Lei guardò l'apparecchio, poi alzò gli occhi su di me facendomi capire che non aveva alcuna intenzione di rispondere.

Appoggiai il foglio di carta sul tavolo e sollevai il ricevitore. «Pronto». Silenzio, poi un sospiro che sapeva di birra e di cipolle. Non saprei dire se quelli fossero proprio gli odori del misterioso individuo che si trovava dall'altro capo del filo, oppure quelli che io istintivamente attribuivo ad una persona che faceva telefonate anonime. Mentre le voltavo le spalle, Tuta Sunderson si precipitò ad afferrare il foglio.

«Maledetto bifolco» urlai. «Tu hai della merda di maiale al posto del cervello.»

Il mio interlocutore riagganciò bruscamente e io scoppiai in una fragorosa risata, che divenne ancora più crassa quando vidi l'espressione che si era dipinta sul volto di Tuta. Era scioccata. Io continuai a ridere, ma con un vago sapore di amaro in bocca.

 

Quando sentii sbattere la porta della veranda, aspettai fino a quando la vidi arrancare su per la strada, il cardigan bitorzoluto appeso ad un braccio e la borsetta a tracolla che le rimbalzava sul sedere. Dopo alcuni minuti, uscì dal mio campo visivo, perdendosi nella luce del sole come uno scarafaggio bianco. Appoggiai la matita e chiusi il diario. Uscii sulla veranda e indugiai ad osservare il bosco: tutto era immobile, come se la vita si fermasse quando il sole era così alto. Ma c'erano i suoni a smentirmi: in lontananza, oltre la strada, il trattore di Duane scoppiettava con una regolarità esasperante. In sottofondo, gli uccelli chiacchieravano fra di loro. Raggiunsi il vialetto d'accesso, attraversai la strada e saltai il fosso.

Sulla sponda opposta del torrente si sentivano i grilli, le cavallette e altre minuscole creature che ronzavano nell'erba. Risalii la collina: da un campo di erba medica, stridendo, si alzarono in volo alcuni corvi, i loro corpi come fuochi contraerei, come cenere nell'aria. Il sudore mi colò sulle sopracciglia e io sentii la camicia fradicia aderirmi alla schiena. Ridiscesi per un tratto il pendio, poi cominciai a salire di nuovo, dirigendomi verso gli alberi.

Quello era il posto in cui lei mi aveva già condotto due volte. Gli uccelli cinguettavano, sfrecciando da un ramo all'altro sopra la mia testa. La luce si riversava in grandi fiotti, come fa solo nei boschi e nelle cattedrali. Osservai uno scoiattolo grigio precipitarsi verso un ramo sottile, costringerlo a piegarsi sotto il proprio peso e poi trasferirsi su uno più basso e più robusto, come un uomo che esca da un ascensore. Poi, a poco a poco, il terreno cominciò a mutare e anche gli alberi: i miei piedi affondavano su un pacciame morbido e grigio fra le querce e gli olmi. Aggirai pini ed abeti, sentendone gli aghi corti che scivolavano sotto le suole dei miei stivali. Come era accaduto mentre giacevo supino sul pavimento di legno lucido dello studio, procedevo a stento fra felci alte e frondose. I rovi mi si impigliavano nei pantaloni e le bacche si schiacciavano, lasciando macchie vermiglie sulla stoffa. Il tronco sventrato di una vecchia quercia abbattuta da un fulmine bloccava il sentiero: io vi balzai sopra e sentii sotto i piedi il legno marcio che cedeva. Alcuni filamenti verdi rimasero impigliati negli occhielli metallici dei miei stivali.

Proseguendo, come nella visione che avevo avuto alcune notti prima, oltrepassai la massa fitta degli alberi immobili, fino a quando raggiunsi il punto in cui sembravano radunarsi, come passanti assiepati attorno al luogo di un incidente: scivolai nel breve spazio che separava due piante e fui nella radura. Lì, la luce del sole, che prima riusciva soltanto a filtrare nell'intreccio serrato del fogliame, risplendeva di un'intensità violentemente gialla, come un leone, piena di un'energia inumana. L'erba alta si piegava per il proprio peso; il ronzio degli insetti indugiava in vibrato sopra il prato.

Al centro, dove qualcuno aveva acceso un fuoco, le ceneri mostravano ancora un cuore rosso, come quelle nella vecchia stufa a legna di Rinn. Tutt'intorno aleggiava il calore di Alison. Galen Hovre si sbagliava a proposito di Duane e di mia cugina. Oppure Duane aveva mentito.

 

Stranamente, anche se forse era prevedibile che sarebbe andata così, quando avevo attraversato il bosco in sogno, tutto mi era sembrato di una concretezza immediata, palpabile, mentre adesso che ero lì in carne ed ossa mi sentivo immerso in un'atmosfera di sogno. Pensai, quasi paventandolo, che se mi fossi inoltrato in quel luogo, in cui, nella mia visione, mi si era palesata quell'immagine spaventosa di Alison Greening, mi sarei sentito più vicino a lei. Quello spazio le apparteneva e in esso indovinai la fonte dell'aria gelida che pervadeva la vecchia fattoria. Se esiste un altro mondo, un mondo dello Spirito, chi può dire che il suo tocco non potrebbe scuoterci fin nelle ossa e che il suo calore non potrebbe giungere a noi come il freddo dell'acqua di una cava? Ma senza tener conto del modo orribile in cui Alison mi era apparsa nell'incubo, spaventosa creatura fatta di fronde e di brandelli di corteccia, quel vagare incerto mi portava più vicino a lei, la evocava con maggior successo di qualsiasi rozza ricerca attraverso il bosco e la radura. Io avevo iniziato un libro di memorie, un compito a cui lei mi aveva indotto (ricordavo bene come in un giorno d'estate di tanti anni prima, mentre risalivamo insieme la montagna che sorge dietro la valle alla ricerca di tumuli indiani, Alison mi avesse detto che da grande lei sarebbe diventata pittrice ed io scrittore), che sembrava cementare ancor di più la nostra unione, perché, com'è ovvio, significava che io pensavo a lei più di quanto avrei fatto altrimenti. Lei era il basso ostinato di tutto quello che scrivevo: era come se la tessessi in ogni pagina, frase dopo frase. Poi, una mattina, dopo aver trangugiato una sofferta colazione sotto lo sguardo vigile di Tuta Sunderson - che prima aveva accettato le sette banconote da un dollaro che le avevo offerto e subito dopo, senza dire una parola, me ne aveva restituite due, come se costituissero la prova di una proposta oscena - avevo attraversato, con la Nash presa a nolo, il ponte sul Mississippi che sorge sulla Superstrada 35, uno splendido paesaggio americano, con le isole che mostrano il dorso boscoso, simili a bufali color verde acqua sul fiume marrone, ed ero andato a Winona, nel Minnesota, ad acquistare i dischi che mi servivano per creare l'ambiente-Alison. Alcuni album degli anni '50 e alcuni pezzi rari. Ad un primo, rapido esame degli espositori del negozio in cui ero entrato, ne trovai uno, ma subito dopo notai la scritta "Dischi Usati al Piano Inferiore" e decisi di scendere a dare un'occhiata. Il semi-interrato, illuminato da un'unica lampadina appesa al centro del soffitto, era pieno di casse colme di vecchi album con le copertine rovinate. Nascosti dietro alcuni indimenticabili successi di Perry Como, Roy Acuff e Roger Williams, trovai due vere e proprie chicche e manifestai la mia esultanza in modo così entusiasta, che il proprietario del negozio si affacciò sulle scale per chiedermi se stessi bene. Il primo era un vecchio lp di Dave Brubeck che una volta mia cugina mi aveva detto di adorare (Jazz at Oberlin) e l'altro... be', l'altro era un vero gioiello: era l'album del Gerry Mulligan Quartet che Alison mi aveva pregato di comprarle, quello con la copertina di Keith Finch. Aver trovato quel disco equivaleva ad aver trovato un suo messaggio scarabocchiato su una pagina del mio diario, perché era il disco che, più di ogni altro, la evocava, quello che aveva amato di più. Il proprietario del negozio mi chiese cinque dollari per i due lp, ma io sarei stato disposto a sborsarne anche cento: erano come i miei scritti, servivano a far avvicinare Alison.

«Cos'è quella roba che ascolti sempre?» mi chiese sabato sera la Regina Guerriera, scrutandomi attraverso la porta della veranda. «Sono brani di jazz?» Riposi la matita in mezzo al mio diario e lo chiusi. Ero seduto sul vecchio divano del salotto e le lampade a cherosene diffondevano una flebile luce cremisi che addolciva i suoi lineamenti, resi vaghi dall'intreccio della zanzariera. Indossava un paio di pantaloni e una camicia di denim e, in quella luce soffusa, mi sembrò più femminile di quanto non mi fosse apparsa fino ad allora. «Senti» mi disse, «è tutto a posto. Intendo dire che mio padre è andato ad Arden a non so quale riunione. Red Sunderson gli ha telefonato poco prima di cena. È un incontro per soli uomini e probabilmente durerà ore. Ho sentito che ascoltavi questo disco anche l'altro giorno. È questo il genere di musica che preferisci? Posso entrare?»

Entrò nel salotto e si sedette su una sedia a dondolo di fronte a me. Ai piedi calzava un paio di zoccoli marroncini. «Che disco è?»

«Ti piace?» Ero davvero curioso di saperlo.

Lei fece spallucce. «Mmm, per me la musica è tutta uguale.»

«Non è mica vero.»

«Che cos'è questo strumento?»

«E una chitarra.»

«Una chitarra? Dici che questa è una chitarra? Ma va là. È un ...è un., accidenti, non mi viene. È una specie di corno. Un sax. È un sax, vero?»

«Sì, è un sax baritono.»

«E allora perché mi hai detto che era una chitarra?» Poi capì lo scherzo e sorrise.

Io scrollai le spalle e le sorrisi a mia volta.

«Merda, ma qui dentro fa un freddo cane.»

«È perché è umido.»

«Ah-ah. Senti, Miles, è vero che hai rubato da Zumgo's? Il Pastore Bertilsson va in giro a dire a tutti che hai rubato non so cosa.»

«Se lo dice lui, dev'essere vero.»

«Io non ci credo.» Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, scuotendo la testa e masticando un chewing-gum. «Ehi, sai che è proprio bello il salotto sistemato così? Proprio come era una volta, quando io ero piccola e la bisnonna era ancora viva.»

«Lo so.»

«Sì, sta proprio bene» ribadì continuando a studiare la camera. «Ma non c'erano anche delle altre fotografie? Mi sembra che ne manchi una di te e del babbo insieme.»

Quando annuii, lei mi chiese: «E dove sono finite?»

«Non mi servivano.»

Fece un pallone con il chewing-gum e lo lasciò scoppiare. «Sai, Miles, io proprio non ti capisco. Sei un tipo davvero strano. A volte mi ricordi Zack, a volte fai dei discorsi che sembri tocco. Come hai fatto a rimettere ogni mobile esattamente al suo posto?»

«Ho dovuto fare un sacco di prove, prima di trovare la soluzione giusta.»

«È come se fosse un museo, vero? Intendo dire che mi sembra quasi che la bisnonna possa ricomparire da un momento all'altro!»

«Però, non credo che le piacerebbe questa musica!»

Alison rise. «Allora, è vero o no che hai rubato da Zumgo's?»

«Zack ruba?»

«Certo.» Mi guardò spalancando i grandi occhi color acqua marina. «In continuazione. Lui sostiene che bisogna liberare le cose. Dice anche che se riesci a prendere qualcosa senza che ti becchino, significa che hai diritto di tenertelo.»

«E dove ruba?»

«Nei posti in cui lavora. In casa della gente se lavora da qualcuno, o al distributore se lavora lì. Ma tu stai cercando di dirmi che sei un professore universitario eccetera eccetera e che rubi?»

«Se lo dici tu.»

«Capisco perché tu a Zack piaci tanto. Una cosa così lo manderebbe in brodo di giuggiole. Un tipo in gamba, uno arrivato che ruba nei negozi. Lui pensa che forse di te si potrebbe fidare.»

«Io continuo a pensare che Zack non ti meriti.»

«Ti sbagli, Miles. Tu non conosci Zack. Tu non sai quello che sta passando.» Si chinò in avanti, incrociando le braccia sul petto e appoggiando le mani sulle spalle. Era un gesto pieno di femminilità.

«Per quale motivo hanno fatto quella riunione giù ad Arden? Quella a cui sono andati sia tuo padre che Red.».

«E che ne so? Senti, Miles, pensi di andare in chiesa domani?»

«Naturalmente no. Io ho una reputazione da difendere.»

«Allora vedi di non ubriacarti di nuovo stasera, ok? Abbiamo un piano. Ti portiamo in un posto.»

 

Dalla deposizione di Tuta Sunderson:

18 luglio

Be', quello che mio figlio pensava è che ci fosse una specie di copertura. Questa è la parola che ha usato con me, Galen Hovre, che ti piaccia o no. Una copertura. Naturalmente non era vero, adesso lo sappiamo, ma pensa a quello che stava succedendo in quei giorni! Dopo quei due omicidi, il povero Paul Kant si era rintanato in casa di sua madre e c'era Miles che ne faceva di tutti i colori: stava ribaltando la casa di sua nonna in un modo che a Duane non piaceva per niente, andava in giro nelle macchine della polizia e Dio sa cos'altro. La gente pensava che bisognasse fare qualcosa. In più avevamo capito tutti che tu ci stavi nascondendo qualcosa e avevamo ragione!

Comunque a uno degli amici di Red era venuta in mente l'idea delle macchine e Red gli aveva detto: aspettiamo finché non sappiamo con certezza quello che sta succedendo e riuniamoci per parlarne. Tutti gli uomini della valle. Volevano trovarsi insieme, hai capito? Per cercare di capire se erano vere le voci che circolavano in città.

Così si sono riuniti nel retro dell'Angler's bar. Red mi ha detto che erano in trentaquattro. Facevano tutti riferimento a lui, perché era stato lui a trovare Jenny Strand.

Allora che cosa avete sentito dire, ha chiesto Red. Chi sa qualcosa di concreto parli: abbiamo bisogno di fatti non di pettegolezzi. Qualcuno si alza e racconta di aver sentito dire che la polizia stava tacendo qualcosa. Vediamo. Doveva essere stato uno degli agenti a confidarlo alla sua ragazza o qualcosa del genere. Bada che non sto dicendo che sia andata proprio così, eh, Galen. Poi uno degli uomini ha chiesto se qualcuno sapeva di gente che si nascondeva o che si comportava in modo strano nel suo quartiere.

A quel punto qualcuno fa, Roman Michalski non è venuto al lavoro questa settimana.

È malato? chiedono gli altri.

No, a nessuno risulta che sia malato. Se ne sta chiuso in casa. Lui e sua moglie.

A proposito di persone che se ne stavano rintanate in casa avrei potuto dirgli di Miles. Bisognava vederlo. Da quando era riuscito a sistemare i mobili come voleva, cioè com'erano quando era viva sua nonna, non aveva più messo il naso fuori da quelle mura vecchie e umide. Di giorno ascoltava quegli stupidi dischi e di sera si ubriacava fino ad addormentarsi. Sembrava che fosse in trance o qualcosa del genere. Un uomo grande e grosso come lui che si spaventava come un bambino solo a fargli bu. E il suo linguaggio! Oh, lo sapeva che prima o poi le avrebbe pagate tutte. Quando ho scoperto che aveva dormito con una ragazza, sono corsa a dirlo a Red.

Comunque, come già sai, lunedì sera alcuni degli uomini sono andati a trovare Roman Michalski.

 

Il mattino della domenica, dopo aver fatto la doccia, salii in camera e, prima di togliermi l'accappatoio bagnato, esaminai i miei vestiti. Senza dirmi niente, la signora Sunderson aveva lavato i jeans e la camicia che avevo sporcato di fango nel bosco, e aveva riposto entrambi, ordinatamente piegati, sopra il cassettone. Esaminando i pantaloni vidi che in uno dei risvolti vi era un buco abbastanza grande e immediatamente ripensai con disagio alla mia arrampicata in mezzo agli alberi. Ero contento di essere ritornato nella radura e di non avervi trovato nient'altro che il fuoco di un picnic che languiva. Infilai un dito nel buco, ma poi ritrassi la mano. Mi venne in mente uno dei consigli che mi aveva dato Orso Polare e mi avvicinai indeciso all'armadio in cui avevo appeso l'unico abito intero che avevo portato con me. Erano le sette e mezzo: avevo appena il tempo di vestirmi e di raggiungere la chiesa. Dovevo fare le cose per bene, dovevo essere vestito per bene. Non dovevo mostrarmi nervoso, anzi, al contrario, dovevo apparire il ritratto vivente dell'innocenza. Ma al solo pensiero mi sentivo tremare le ginocchia. Se non ci vai, sei come Paul Kant, disse con chiarezza una vocina dentro di me.

Presi l'abito dall'attaccapanni e cominciai a vestirmi. Per un motivo che, probabilmente, aveva molto a che vedere con la vanità, prima di partire da New York avevo messo in valigia, oltre agli abiti adatti alla vita di campagna, anche i capi più eleganti del mio guardaroba: un paio di scarpe da ottanta dollari, un completo a righine leggero acquistato da Brooks e diverse camicie fatte su misura che Joan, a cui non mancava una vena piacevolmente ironica, mi aveva regalato un anno a Natale. Certo non avevo previsto che un giorno ne avrei indossata una per andare nella chiesa luterana di Getsemani.

Dopo aver annodato la cravatta e aver indossato la giacca, mi guardai allo specchio. Assomigliavo assai più ad un avvocato di Wall Street che ad un professore fallito o un sospetto omicida. Avevo un aspetto innocente, affabile e florido. Sembravo un bambino al servizio del Signore, un uomo che, mentre esegue un difficile colpo con il putter, eleva distrattamente una preghiera a Dio.

Prima di uscire di casa, infilai la copia di Lei nella tasca della giacca: un frammento di Alison per tenermi compagnia.

Parcheggiai la Nash nell'ultimo posto libero del parcheggio di fronte al sagrato, quindi mi avviai sotto il sole cocente verso i gradini bianchi della chiesa. Come tutte le domeniche, gli uomini stavano chiacchierando sul marciapiede di cemento e fumavano. Era un quadretto famigliare, che avevo imparato a conoscere negli anni della mia infanzia: gli uomini che anche allora chiacchieravano e fumavano davanti alla chiesa erano i padri e gli zii di quelli che c'erano quella mattina e indossavano abiti sobri e di taglio modesto, fatti in serge o in gabardine. Come quelli della generazione precedente, i contadini che affollavano il sagrato recavano i segni tangibili del lavoro che facevano: le mani grosse, con i pollici enormi e rigidi, e la fronte bianca, che contrastava con il resto del viso bruciato dal sole. Duane era il solo ad indossare un abito a giacca; gli altri portavano camicie sportive e pantaloni comodi. Mentre camminavo verso di loro, mi resi conto della mia assurda eleganza e del mio ridicolo abbigliamento da cittadino.

Uno di loro mi notò e rimase interdetto, con la mano sospesa a mezz'aria, incerto se portare la sigaretta alla bocca o abbassare di nuovo il braccio; mormorò qualcosa al suo vicino e io riuscii a leggere sulle sue labbra le tre sillabe che compongono il mio cognome: Teagarden.

Quando raggiunsi il sagrato riconobbi qua e là qualche viso e salutai il primo conoscente che mi capitò a tiro. «Buongiorno, signor Korte» dissi ad un uomo tarchiato che assomigliava a un bulldog, con i capelli tagliati a spazzola e un paio di imponenti occhiali neri. Bud Korte possedeva una fattoria ad un miglio o due di distanza dalle terre degli Updhal; lui e mio padre erano andati spesso a pescare insieme.

«Miles» esclamò e subito dopo distolse lo sguardo allarmato, concentrandosi sulla sigaretta che stringeva fra due dita grandi come due piccole banane. «Come va?» Era imbarazzato come un vescovo di fronte ad una prostituta che lo saluti con piglio confidenziale. «Avevo sentito che eri tornato». I suoi occhi saettarono di nuovo in mille direzioni, finché si posarono, con espressione di palese sollievo su Dave Eberud, un altro dei contadini che avevo riconosciuto e che, con la sua camicia a righe orizzontali e calzoni a scacchi, sembrava un bambino che la madre ha vestito troppo in fretta. Eberud girò leggermente la testa tartarughesca verso di noi. «Devo dire una cosa a Dave» mi disse Bud Korte e mi lasciò a studiare la punta dei miei mocassini lucidi.

Duane, la giacca a doppiopetto sbottonata, sotto la quale si vedevano le larghe bretelle rosse, era fermo a metà dei gradini che conducono alla chiesa: dal suo portamento, un piede saldamente piantato sullo scalino superiore e le spalle aggressivamente rivolte in avanti, si capiva che non aveva alcuna intenzione di intrattenersi con me, ma io mi diressi ugualmente verso di lui, facendomi strada fra gli uomini che, al mio passaggio serravano i ranghi.

Quando iniziai a salire gli scalini, la sua voce mi giunse distintamente all'orecchio. «...l'ultima asta. Come faccio ad aspettare di vedere come va a finire? Se il manzo scende sotto i cinquantaquattro al chilo, io sono finito. Non potrei mai farcela, nemmeno con la nuova terra che ho comprato, e quel vecchio M che ho sta andando a pezzi.» Accanto a lui giganteggiava la robusta figura di Red Sunderson, che mi fissava senza nemmeno fingere di ascoltare le lagnanze di Duane. Alla luce del giorno, Sunderson sembrava più giovane e più duro che di notte. Il suo viso era un piano, piatto e aggressivo, di angoli smussati.

Mi disse: «Come siamo eleganti oggi, Miles.»

Duane mi lanciò un'occhiata irritante e raddrizzò la gamba che teneva di traverso. La parte del suo viso cotta dal sole mi sembrò stranamente rossa. «Mi chiedevo se prima o poi ti avremmo visto da queste parti» mi disse, ma il tono della voce sottintendeva: ma adesso è troppo tardi.

«Dicevo che siamo molto eleganti oggi.»

«È tutto quello che mi sono portato dietro, oltre ai jeans» risposi.

«Mia madre mi ha detto che hai finito di giocare con quei vecchi mobili.»

Duane si lasciò sfuggire dalle labbra un'esclamazione soffocata di rabbia mista a disgusto. Dietro di me un uomo emise un sospiro, o piuttosto un sibilo, che mi fece pensare a una risata soffocata.

«Che cos'è un vecchio M?» chiesi a Duane.

Il rossore sul viso di mio cugino si accentuò. «Un maledetto trattore. Un maledetto trattore con il cambio rotto, se proprio vuoi saperlo. Visto che hai già rotto un po' dei miei mobili, magari ti piacerebbe provare anche con il mio trattore, eh?»

«Hai fatto qualche altro giretto nel bosco di recente, Teagarden?» mi chiese Red Sunderson. «Trovato qualcosa di interessante in mezzo agli alberi?»

«Che cos'è questa storia del bosco?» domandò Duane.

Red continuava a fissarmi con quella sua faccia fatta di angoli smussati, in mezzo alla quale spiccava, in totale disarmonia con il resto, il naso a patata che aveva ereditato da sua madre.

Obbedendo a qualche misterioso segnale tribale, gli uomini stavano lentamente salendo gli scalini. Dapprima pensai di essere io la causa di quello spostamento di gruppo, ma poi mi resi conto che il servizio era iniziato e che pertanto era giunta l'ora di ricongiungersi all'assemblea delle donne. Red si voltò, come se non potesse sopportare di guardarmi un minuto di più e così io rimasi solo con Duane, paonazzo in viso e infuriato con il sottoscritto. «Devo parlarti di una cosa» gli dissi. «Riguarda Alison Greening.» «Al diavolo» sibilò e poi aggiunse: «Non ti azzardare a sederti vicino a me.» Dopodiché salì rabbiosamente gli scalini in compagnia dei suoi amici. Mentre li seguivo all'interno della chiesa sentii che bisbigliavano fra di loro.

O per un sapiente passaparola o per telepatia, tutti sapevano chi sarebbe stato l'ultimo uomo ad entrare in chiesa: non una sola donna aveva gli occhi rivolti all'altare quando io varcai la soglia e sui volti di molte di loro lessi espressioni di puro terrore. Con il suo caratteristico incedere da contadino, Duane guadagnò rapidamente la navata di destra ed io mi diressi verso quella di sinistra, con i primi rivoli di sudore che correvano sotto la mia elegante camicia di sartoria.

A metà navata circa scivolai in un banco e mi sedetti. Mi sentivo gli occhi di tutti puntati addosso e, nel tentativo di mostrare disinvolta noncuranza, inclinai leggermente la testa, per esaminare l'interno della chiesa. Soffitto di legno, arcate intonacate di bianco, muri immacolati, quattro finestre di vetro colorato su ogni lato con, scritti alla base, alcuni nomi norvegesi: in memoria di Gunnar e Joron Gunderson, in memoria di Einar e Florence Weverstad, in memoria di Emma Jahr. Dietro l'altare c'era un enorme dipinto sentimentale di Gesù che consacra San Giovanni; un uccello bianco, parente stretto dei piccioni di Arden, si librava sopra il volto pallido e simmetrico del Battista.

Quando Bertilsson fece il suo ingresso nel presbiterio, con la medesima, meccanica puntualità delle figurine dei cucù tedeschi, per prima cosa rivolse lo sguardo al sottoscritto. Evidentemente, il tam-tam telepatico aveva raggiunto anche lui. Seguì l'usuale cerimoniale di invocazioni, orazioni e canti. Una donna avvizzita, con un vestito rosso, provvedeva ad un maldestro accompagnamento musicale all'organo. Bertilsson continuava a fissarmi: sembrava in preda ad una non meglio specificata emozione che stentava a contenere. Aveva le orecchie rosse. Nel frattempo, i miei vicini di banco avevano approfittato dei frequenti cambiamenti di posizione - dalla stazione eretta a quella seduta - per guadagnare preziosi centimetri verso l'estremità opposta della panca e allontanarsi da me.

Una mosca continuava a ronzare rabbiosamente e ossessivamente vicino al soffitto. La mia camicia era così fradicia da formare un tutt'uno con la mia pelle e ogni volta che mi appoggiavo allo schienale vi rimanevo appiccicato. Al di sopra del legno dorato del banco davanti, un bambino dall'aria assente mi fissava con occhi vacui e la bocca aperta: una goccia di saliva gli colava dal labbro inferiore.

Dopo aver esclamato «O Dio, Nostro Aiuto Nei Secoli Passati», Bertilsson fece segno all'assemblea di sedere con lo stesso gesto con cui un attore zittisce un coro di applausi. Quindi raggiunse il pulpito, estrasse lentamente da una manica un fazzoletto, si asciugò la fronte madida, e, con la medesima calma, ripose il fazzoletto al proprio posto. Dopodiché, con grande solennità, produsse da una tasca i fogli su cui aveva annotato la predica di quella domenica. Non vi sarebbe stato nulla di strano in questo comportamento se, nell'eseguire tutti questi passaggi, il Pastore Bertilsson avesse, almeno una volta, distolto i suoi occhi dai miei.

«Il brano di oggi» esordì con voce debole e confidenziale «è la lettera di S. Giacomo apostolo, capitolo secondo, primi cinque versetti. "Fratelli miei, fate sì che la vostra fede nel nostro glorioso Signore Gesù Cristo, sia scevra da ogni preferenza di persone. Se, infatti, entra nella vostra adunanza un uomo con anelli d'oro e vestito elegantemente e vi entra pure un povero con misero vestito..."»

Smisi di ascoltarlo e abbassai la testa, rimpiangendo in cuor mio di aver seguito il consiglio di Orso Polare. Quale vantaggio avrei tratto dal partecipare alle funzioni religiose? Poi, mi resi conto che Galen mi aveva detto anche un'altra cosa, molto più importante: un fatto che si legava ad un altro fatto. Era come una spina nel fianco che mi tormentava. Cercai di ricostruire mentalmente la nostra conversazione, ma la voce di Bertilsson continuava ad intromettersi, interrompendo il filo dei miei pensieri.

Mi accorsi che era riuscito ad inserire nella lettera di San Giacomo, la storia del Buon Samaritano, un'impresa davvero titanica anche per uno con la parlantina sciolta come lui. A quanto sembrava, il Buon Samaritano era un ottimo esempio di uomo di fede, in quanto non faceva preferenze di persone. Sollevai gli occhi sulla sua odiosa, scintillante faccia da luna piena e gemetti in silenzio. Continuava a fissarmi con sguardo inesorabile. Io chiusi gli occhi e trassi un profondo sospiro.

Bertilsson continuò imperterrito la sua predica e fu solo quando notai le sue frequenti pause alla ricerca delle parole più adatte, che capii che stava improvvisando. Riaprii gli occhi e vidi che stava ripiegando i suoi appunti, riducendoli inconsciamente a graziosi pacchetti quadrati con gli angoli appuntiti. Il bambino davanti a me mi fissava con la bocca vieppiù spalancata.

Dopo un po' mi resi conto di quali fossero le intenzioni del caro pastore e lo osservai mentre portava a termine il suo piano, con la voce stentorea e gli occhi scintillanti che traboccavano di malizia. «Non c'è forse anche fra di noi un uomo vestito elegantemente, un uomo che non può nascondere la sua angoscia sotto abiti costosi? Non c'è forse anche fra di noi un uomo che ha bisogno dell'aiuto generoso del Samaritano? Un uomo che soffre? Fratelli miei, non c'è forse fra di noi un uomo confuso, accecato, un uomo che non reputa la vita un dono di Dio, mentre noi sappiamo che ogni vita, quella del passero come quella del bambino, è preziosa agli occhi del Signore? Io parlo di un uomo la cui anima è un grido di dolore, un grido rivolto al cielo, perché Iddio lo liberi dall'angoscia che lo tormenta. Un uomo malato, fratelli miei, un uomo gravemente malato. Amici miei, un uomo che ha bisogno del nostro amore cristiano...»

Era insopportabile. La mosca continuava a ronzare rabbiosamente contro il soffitto, alla ricerca di una via d'uscita. Ad un tratto mi alzai, uscii dal banco e voltai le spalle all'altare. Dietro il suo falso messaggio d'amore percepii l'esultanza nella voce di Bertilsson. Desideravo con tutto me stesso essere di nuovo su, in mezzo al bosco, con le mani sopra il calore della brace ardente. Una donna cominciò a chiacchierare come un uccellino e sentii le mura immacolate della chiesa riflettere la muta sorpresa che si irradiava dai volti dei fedeli. Bertilsson continuava a parlare, reclamando il mio sangue. Io percorsi la navata il più celermente possibile e, quando raggiunsi la porta, la spalancai e uscii. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che tutti si erano girati a guardarmi. Attraversai il sagrato, misi in moto il mio orribile macinino e via, come un fulmine, verso casa sotto il sole cocente. Mi tolsi la giacca e la gettai sul sedile posteriore. Volevo essere nudo, volevo sentire il pacciame di foglie e di aghi di pino sotto le piante dei piedi. Quando fui a circa metà strada cominciai ad urlare.

 

CAPITOLO OTTA VO

 

Quando attraversai il prato che precede la casa, sentii che lo stereo era acceso. Qualcuno stava ascoltando I am beginning to see the light dall'album di Gerry Mulligan. La rabbia che mi aveva suscitato la sortita di Bertilsson si dileguò all'istante, lasciandomi soltanto accaldato e in preda ad un grande senso di spossatezza e di disorientamento. Insieme alle note della tromba di Chet Baker mi giunse il profumo di pancetta fritta. Entrai nella veranda e indugiai ad assaporare l'immediato refrigerio che mi investì in quel luogo riparato dal calore soffocante del sole.

Dopo un po' Alison Updhal si affacciò alla porta della cucina, masticando qualcosa. Indossava gli immancabili blue jeans e, sopra questi, una T-shirt azzurro pallido. «Dov'eri finito, Miles?» Io le passai accanto senza risponderle. Raggiunsi il divano di bambù e mi ci lasciai cadere sopra, facendo cigolare minacciosamente le giunture. «Ti dispiace se spengo lo stereo? Non mi va di sentire della musica in questo momento.»

«E a te dispiace se io...» Indicò il giradischi e alzò le spalle.

«Non così tanto da obiettare» risposi, protendendomi in avanti per alzare il braccio del giradischi. Mi tremavano le mani.

«Ehi, ma tu sei andato a messa» riprese Alison lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso. Aveva notato la cravatta e i pantaloni a righe. «Mi piaci vestito così. Sembri molto chic e vecchia maniera. Ma non è un po' presto per essere già di ritorno?»

«Si.»

«Ma perché ci sei andato? Non penso che ti ci vogliano lì.»

Io annuii.

«Sono tutti convinti che tu abbia tentato di ucciderti.»

«Oh, se è per questo pensano ben di peggio.»

«Ma tu lasciali perdere, Miles, non permettergli di rovinarti la vita. Tu e il vecchio Hovre siete in buoni rapporti, giusto? Lui ti ha invitato a casa sua, non è così?»

Il telegrafo della giungla. «E tu come fai saperlo? Te l'ho detto io?»

«Ma Miles, lo sanno tutti.» Io sprofondai di nuovo sui cuscini del divano. «Ehi, non vuol dire mica niente. Davvero. Sai com'è la gente: non ha niente da fare e chiacchiera, chiacchiera...» Stava cercando di tirarmi su di morale. «Non significa un bel niente.»

«Okay» risposi io. «Grazie per la tua solidarietà. Sei venuta qui solo per ascoltare i dischi o c'è dell'altro?»

«Avevamo un appuntamento questa mattina, ti ricordi?» Tirò indietro le spalle sorridendo, e appoggiò le mani sulle reni. Se la sua maglietta avesse avuto delle cuciture sul seno, ero sicuro che sarebbero scoppiate. Il suo odore di sangue continuava ad aleggiare in mezzo a noi, senza aumentare né diminuire. «Vieni, ci aspetta un'avventura. Zack vuole parlarti.»

«L'ho sempre detto io che le donne sarebbero degli ottimi generali.» Nonostante fossi esausto, mi alzai e la seguii fuori di casa.

Alcuni minuti dopo oltrepassammo la chiesa a bordo della Nash. L'eco dei canti sacri giungeva fino alla strada. Alison fissò le macchine parcheggiate davanti al sagrato e poi si voltò a guardarmi in preda ad un genuino sconcerto. «E tu saresti uscito prima? Ti sei alzato e te ne sei andato prima della fine della funzione?»

«Che effetto fa?»

«Davanti a tutti? E gli altri ti hanno visto?»

«Tutti quanti, senza eccezioni.» Mi allentai il nodo della cravatta.

Alison scoppiò a ridere di gusto. «Miles, tu sei un vero cowboy» disse, poi riprese a ridere. Era un suono piacevole, umano.

«Invece, il vostro pastore pensa che io sia un maniaco sessuale e un assassino. Nel suo sermone non ha fatto altro che invocare la forca per me.»

Il suo buon umore svanì all'istante. «Non sei tu, non sei tu» ripeté quasi gemendo. Intrecciò le gambe sotto il sedere e tacque a lungo.

«Dove stiamo andando?»

«In uno dei nostri posti» rispose con voce incolore. «Avresti fatto meglio a non andare. Adesso penseranno che hai voluto prenderli in giro.»

Era un consiglio migliore di quello che mi aveva dato Orso Polare, ma arrivava troppo tardi. Si mise di traverso, in modo da appoggiare la testa sulla mia spalla.

In quegli ultimi tempi la mia vita aveva subito cambiamenti così repentini ed io avevo sperimentato stati d'animo così diversi che per poco quel gesto non mi fece scoppiare a piangere come un bambino. Alison rimase in quella posizione per tutta la durata del tragitto, attraverso le colline brunite dal sole. Non vedevo l'ora di vederla entrare trionfalmente da Freebo's come se sotto i suoi piedi non ci fossero misere assi di legno ma un tappeto rosso. Quella volta, riflettei, avremmo avuto bisogno entrambi della protezione di Zack per entrare nel bar.

Ma non era da Freebo's che mi stava portando. Ad un miglio circa da Arden, la strada si biforca, ma fino ad allora io non avevo neppure voluto prendere in considerazione l'esistenza di quel bivio. Quel mattino, invece, pochi istanti prima che lo superassimo, Alison si raddrizzò e disse: «Rallenta.»

Io mi voltai a guardarla. Lei girò la testa, mostrandomi il suo profilo schietto sotto la frangetta irregolare di capelli biondi. «Qui a sinistra.»

Io rallentai fino a procedere quasi a passo d'uomo. «Perché qui?»

«Perché non ci viene quasi mai nessuno. Cos'ha che non va questo posto?»

Tutto. Era il luogo più brutto del mondo.

«Io là non ci vengo.»

«E perché mai? È solo la vecchia cava Polshon. È un posto come tutti gli altri.» Mi fissò con sguardo intenso. «Oh. Credo di sapere perché. Perché è il luogo in cui è morta mia zia Alison, quella di cui io porto il nome.»

Io cominciai a sudare.

«Sono sue quelle due foto che hai sulla tua scrivania, vero? Pensi che io le assomigli?»

«No» dissi con un filo di voce. «Direi proprio di no.»

«Lei era cattiva, vero?» Sentivo che si stava eccitando di nuovo, lo sentivo dall'odore di sangue che riversava nell'abitacolo della macchina. Spensi il motore. «Lei era come te» riprese Alison. «Era troppo strana per la gente di qui.»

«Presumo di sì.» La mia mente stava lavorando.

«Ehi, sei in trance o che?» Mi diede un colpetto sulla spalla. «Ehi, ritorna sulla terra. Ehi, Miles, svegliati!»

«Mi è venuta in mente una cosa. Voglio tentare un esperimento.» Le spiegai quello che avrebbe dovuto fare.

«Mi prometti che poi verrai su? Insomma che non è uno scherzo. Che non farai dietro-front e te ne andrai piantandomi in asso?»

«Prometto che poi ti raggiungo» dissi io. «Ti do cinque minuti di tempo.» Mi protesi di lato e le aprii la portiera. Lei attraversò la strada deserta e si incamminò su per la pista che conduce alla cava.

 

Attesi nel caldo soffocante della macchina per due o tre minuti, fissando la superstrada senza vederla. Una vespa si infilò con decisione nell'abitacolo e sbatte ripetutamente la testa contro il parabrezza, prima di perdere la pazienza e sfrecciare, ronzando, fuori dal finestrino. In lontananza, lungo la superstrada, sorgeva la fattoria di un avicoltore e i campi che la circondavano erano picchiettati di macchioline bianche e mobili: immaginai che fossero le galline, che si muovevano a scatti sull'erba verde inondata dal sole. Sollevai gli occhi sul cielo azzurro e piatto. Non sentivo niente, se non il cinguettio incurante degli uccelli.

Quando scesi dalla macchina e indugiai sull'asfalto appiccicoso e nero della superstrada, ebbi l'impressione di sentire una flebile voce che urlava; ma se di una voce si trattava, non era possibile distinguerla dal resto del paesaggio e ancor meno capire da quale parte provenisse: poteva benissimo confondersi con il mormorio del vento. Rientrai in macchina e raggiunsi la cava.

Prima di lasciare New York avevo temuto che, rivedendo la fattoria della nonna dopo così tanti anni, sarei stato sopraffatto da chissà quali emozioni; in realtà, i soli sentimenti che avevo provato trovandomi di fronte alla vecchia casa bianca erano stati indifferenza e delusione. Quando, invece, scesi dalla macchina nella piana erbosa e arroventata dal sole che precede la cava, l'emozione mi attanagliò la gola in modo assai più violento di quanto non avessi previsto. Mi ancorai al presente appoggiando il palmo della mano destra sul tetto bollente della Nash. Era quasi tutto come vent'anni prima. L'erba era più scura, a causa del caldo secco di quell'estate e per questo, forse, le protuberanze rocciose apparivano più frastagliate e pronunciate. Rividi il medesimo spiazzo grigio dove un tempo sorgevano le baracche degli operai. I cespugli che una volta crescevano folti dietro la cava adesso erano alti ed esili, le piccole foglie, ridotte a spazzolini scuri e secchi, cartacei. Accanto a questi c'era un furgoncino nero, coperto di polvere. Staccai la mano dal metallo caldo e mi avviai lungo il sentiero che, dipanandosi attraverso i cespugli, termina con alcuni scalini di pietra che conducono al bordo della cava.

Li trovai tutti e due lì. Alison, seduta con i piedi nell'acqua, mi rivolse un'occhiata interrogativa. Zack, grande punto di domanda bianco nel suo costume nero, mi accolse con un ampio sorriso e uno schiocco delle dita. «Ecco qui il nostro uomo, il mio grande uomo.»

«Hai gridato?»

«Accidenti!» esclamò Zack, poi scoppiò a ridere e riprese a far schioccare freneticamente le dita.

«Se ho gridato? Sono quasi rimasta senza voce.»

«Per quanto tempo?»

«Un paio di minuti. Non mi hai sentito?»

«No. Ma hai urlato più forte che potevi?»

«Sono quasi rauca» mi rispose Alison. «Penso che se avessi continuato ad urlare, mi si sarebbe strappato qualcosa in gola.»

Zack piegò le gambe e si sedette sulla pila nera dei suoi vestiti. «È la verità, Miles. Urlava come un'ossessa. Ma perché lei hai chiesto di farlo?»

«Storia passata. Una cosa che mi avevano detto tanti anni fa e che volevo accertarmi che fosse vera.»

«Tu sei troppo attaccato al passato, Miles.» Il suo sorriso si fece più intenso. «Gesù, ma guarda che abiti ha su. Ti sembra la tenuta adatta per venire a nuotare?»

«Non sapevo che saremmo venuti a nuotare.»

«E che cos'altro si va a fare in una cava?»

Mi sedetti con le gambe rannicchiate sul bordo liscio della roccia. Alzai la testa e osservai i cespugli che crescevano sopra di me. Dovevano essersi acquattati lì dietro, in attesa di saltare giù. Non avevo dubbi, dovevano essersi nascosti per forza lì. Avrei voluto essere ad anni luce di distanza da quel posto che sapeva di acqua, che sapeva di Alison.

«Sono vent'anni che non vengo qui. Non so che cosa ci si viene a fare adesso.»

«È un ottimo posto per meditare» disse Zack, che aveva allungato il corpo bianco su una roccia, per prendere il sole. Contai ad una ad una le sue costole, simili a tanti legnetti tutti uguali; anche le braccia e le gambe, ricoperte da peli neri e sottili, erano scheletriche . Nel complesso, il ragazzo della figlia di mio cugino aveva un corpo osceno e ragniforme. Sotto la striscia nera del costume si indovinava la rilevata protuberanza del suo sesso. «Pensavo che fosse ora che ci incontrassimo di nuovo.» Parlava come un generale al suo aiutante di campo. «Volevo ringraziarti per i libri.»

«Di niente» dissi io. Mi tolsi la cravatta e l'appoggiai su una pietra, insieme alla giacca che mi ero portato appresso. Poi tirai la camicia fuori dai pantaloni e la sbottonai a metà per far entrare un po' d'aria.

«Lo sai che Miles è andato in chiesa?» intervenne Alison dal bordo della cava. «E il pastore Bertilsson ha di nuovo incentrato la predica su di lui!»

«Ha-ha-ha!» Zack scoppiò in una crassa risata. «Quel vecchio pezzo di merda. È un cretino integrale. Io lo odio, quel babbeo. E così, lui pensa che tu sia il Bandito Mascherato, eh?»

«Hai portato gli asciugamani?» gli chiese Alison.

«Come? certo che li ho portati. Non si può andare a nuotare senza portarsi dietro gli asciugamani. Ne ho presi tre.» Si voltò sulla pancia e mi studiò. «Ho indovinato, vero? Intendo dire a proposito di Bertilsson.»

«Più o meno.» Faceva troppo caldo per tenere su le scarpe, così le tolsi.

«Be', se hai portato gli asciugamani, allora io faccio il bagno. Ho gridato così tanto che mi fa male la gola» disse Alison. Si voltò a guardare Zack che, con fare indulgente, gesticolò verso di lei come per dire ma-che-cosa-vuoi.

«Mi spoglierò nuda» aggiunse lei, lanciandomi un'occhiata. Non aveva ancora perso quella sua voglia di stupire, di scioccare.

«Guarda che non gli fai paura, perché lui è il Bandito Mascherato» ribatté Zack.

Lei si alzò in piedi visibilmente contrariata, e si sfilò la maglietta. I suoi seni, grandi e rosa, sussultarono un po', poi si appoggiarono mollemente al busto. Quindi, senza troppe cerimonie, si calò i blue-jeans, rivelando interamente il proprio corpo sodo e ben fatto.

«Se tu sei il Bandito Mascherato, hai avuto parecchio da fare ultimamente, o sbaglio?» mi chiese Zack.

Seguii Alison con lo sguardo, mentre si avvicinava cautamente al bordo della cava, dove indugiò alcuni istanti a studiare l'acqua. Voleva allontanarsi da noi.

«Non è molto divertente» dissi io.

Alzò le braccia sopra la testa, poi, dandosi una spinta con i piedi, fendette la superficie immobile dell'acqua con un tuffo netto, ineccepibile. Quando riemerse, cominciò a nuotare a rana.

«Be', che cosa mi dici di quel tizio?»

«Quale tizio?» La mia mente si era annebbiata per un attimo e pensai che si riferisse ad Alison Updhal.

«L'assassino.» Adesso Zack era sdraiato su un fianco e mi fissava pieno di allegria. Anzi, sembrava in preda ad un entusiasmo scaltro e duro, come se il suo intimo ribollisse di segreti. I suoi occhi, che adesso erano dilatati, sembravano fatti di sola pupilla. «Lo sai? Un po' mi eccita. Ha colpito di nuovo, anche se la maggior parte della gente ancora non lo sa.»

«Ah sì?» Il fatto che Zack lo sapesse significava che lo stratagemma di Orso Polare non aveva funzionato.

«Non ne percepisci la bellezza? Quel tuo D. H. Lawrence l'avrebbe notata. Ho letto quei libri che mi hai fatto avere. Sono belli tosti.»

«Non penso che Lawrence abbia mai approvato i maniaci sessuali che si divertono ad ammazzare la gente.»

«Ne sei sicuro? Ne sei davvero sicuro? E se ci fosse un assassino che vuol difendere la vita? Ascolta. Ho dato una scorsa a Donne Innamorate, non l'ho letto tutto, solo le parti che avevi sottolineato. Volevo imparare a conoscerti meglio.»

«Capisco». Era un'idea spaventosa.

«Non parla forse degli scarafaggi? Non dice, ad un certo punto, che alcune persone sono come gli scarafaggi e che dovrebbero essere uccise? Uno nella propria vita dev'esser coerente con le proprie idee, no? Prendi il concetto di dolore. Il dolore è uno strumento. Il dolore è uno strumento finalizzato alla liberazione.»

«Perché non la smettete di chiacchierare e non venite anche voi a fare il bagno?» urlò Alison dal centro della cava. Rivoli di sudore mi colavano lungo il viso.

Gli occhi neri e profondi di Zack mi fissarono intensamente. «Togliti la camicia» mi suggerì.

«Penso proprio che sarà quello che farò.» Finii di sbottonarla e la lasciai cadere sopra la giacca.

«Tu non pensi che sia giusto far fuori chi non è altro che uno stupido scarafaggio? È per questo che a me quel tizio piace: esce di casa e fa quello che deve fare.»

Ci eravamo lasciati Lawrence alle spalle da un pezzo, ma io volevo solo che continuasse a blaterare, in modo che finisse prima. «Ce ne è stato un altro? Un altro omicidio, intendo.»

«Non lo so, amico, ma tu rispondi alla mia domanda: perché cazzo dovrebbe smettere di uccidere?»

Io annuii. D'un tratto, la sola cosa che desideravo era essere in acqua, sentire di nuovo sulla mia pelle l'acqua fredda della cava.

«Forse la parte del libro che mi è piaciuta di più è stata quella della fratellanza di sangue» riprese Zack. «Mi è piaciuta soprattutto la lotta fra i due uomini nudi. L'hai sottolineato quasi tutto quel brano.»

«Immagino di sì» gli risposi, ma lui cambiò di nuovo marcia.

«È libero, capisci. Quel tizio, chiunque egli sia, è libero come l'aria. Nessuno lo fermerà. Ha vomitato tutta la vecchia merda che lo frenava. E se pensasse che qualcuno vuole fermarlo, bang, lo farebbe fuori.»

Quella conversazione mi ricordò quella che avevo avuto alcuni giorni prima con Paul Kant. Ma era decisamente peggiore e il mio disagio aumentò. Mentre Paul Kant era spento e rassegnato, quel ragazzo pelle e ossa vibrava di convinzione.

«Come ha fatto Hitler con Roehm. Roehm gli intralciava il cammino e lui l'ha tolto di mezzo. La Notte dei Lunghi Coltelli. Bang. Un altro scarafaggio morto. Non ne avverti l'infinita bellezza?»

«No» replicai. «Neanche l'ombra.» Dovevo allontanarmi da lui e quando Alison ci chiamò per la seconda volta gli dissi: «Oggi fa troppo caldo per parlare di queste cose. Penso che farò un bagno.»

«È vuoi fare il bagno nudo?» Strabuzzò gli occhi.

«Perché no?» risposi irritato, e mi tolsi anche il resto dei vestiti. Con uno scatto di rabbia, anche lui si alzò in piedi e si sfilò il costume. Ci tuffammo insieme. Benché non la guardassi, sentii che la Regina Guerriera ci osservava dal centro della cava.

Il contatto con l'acqua gelida mi trafisse come una scarica elettrica. Ma più sconvolgente del freddo fu l'impatto con il ricordo di quello che era accaduto l'ultima volta che ero stato lì. Ovunque guardassi la vedevo come l'avevo vista allora, ovunque mi girassi vedevo le sue mani e i suoi piedi che guizzavano illuminati dalla luna. Dopo un po' mi resi conto che quella che stavo vedendo non era la mia Alison, ma la figlia di mio cugino, una figura di donna tutto sommato più adulta. Nuotando a rana, mi allontanai dagli altri due: volevo rivivere quell'emozione da solo. Era come una morsa che mi stringeva il petto e, per un attimo, mentre aggiravo le gambe di Zack che spenzolavano nell'acqua, temetti che mi uccidesse. Il cuore mi martellava in gola: feci un'altra bracciata, poi riemersi in superficie, respirando affannosamente.

Zack mi sorrideva da un paio di metri di distanza: sembrava assurdamente giovane con i capelli bruni incollati al viso e osservandolo ebbi l'impressione che le sue grandi pupille nere avessero completamente oscurato la sclera. Mi disse qualcosa, ma la sua voce, strozzata dal piacere, mi giunse indistinta.

Allora lui ripeté. «E qui che è successo, vero Miles?» Sprizzava di una gioia al limite dell'isteria.

«Che cosa?» dissi io sentendomi agghiacciare lo stomaco.

«Tu e la zia di Alison, eh?» Un sorriso da pazzo gli deformava le labbra.

Gli voltai le spalle e, nuotando più forte che potevo, cercai di guadagnare rapidamente la sponda della cava. Zack continuava ad urlare, ma non ce l'aveva più con me.

L'acqua ribolliva al mio passaggio. Un attimo dopo, Zack gridò di nuovo il mio nome. «Non dici niente, vero Miles? Non dici niente vero?» Il tono della sua voce era minaccioso, aggressivo.

A tre metri dalla salvezza, una mano mi afferrò la caviglia. Io scalciai, ma quando riuscii a liberarmi, qualcun altro mi afferrò i polpacci e mi trascinò verso il fondo. Mentre due mani mi tenevano per le gambe, altre mani mi premevano sulle spalle e poco dopo, qualcuno si sedette cavalcioni sulla mia schiena e cominciò a comprimermi il torace; poi, si protese in avanti per avvolgermi le braccia intorno al collo e, d'un tratto, mi ritrovai con il viso catturato in mezzo a due grandi seni morbidi. Io cercai di opporre resistenza, ma lei aumentò la stretta, costringendomi ad espellere tutta l'aria che avevo nei polmoni. Giochi, pensai, considerando che, in ogni caso, avrei resistito sott'acqua più a lungo di lei. Zack era ancora appeso alle mie caviglie. Feci un debole tentativo di liberarmi: avevo deciso di non dare loro la soddisfazione di lottare. Poi, mi accorsi con orrore che lei era sufficientemente vicina al pelo dell'acqua da riuscire ad emergere con la testa e respirare e ripresi a lottare furiosamente.

Mi dimenai con rabbia, ma lei mi spinse ancora più giù nel tunnel d'acqua. Zack mollò la presa: questo significava che stava risalendo a prendere fiato. I polmoni mi bruciavano per la mancanza d'aria. Una manciata di secondi e Zack mi ricomparve davanti agli occhi, con le mani tese per afferrarmi le spalle. Io gli sferrai un pugno, ma il mio gesto fu miseramente neutralizzato dall'attrito dell'acqua. Lui mi piantò le dita nelle spalle e mi tenne prono sott'acqua. Ero disperato. Seduta sopra di me, la Regina Guerriera continuava a comprimermi il torace.

Se fossi stato da solo con lei, me ne sarei liberato con uno strattone, ma poiché Zack mi teneva bloccate le spalle e le braccia, io non potevo fare altro che dimenarmi, aggravando ulteriormente il problema dell'aria.

Mentre diventavo sempre più debole, Zack abbassò le mani sulle mie reni e mi spinse ancor più verso il fondo. Una protuberanza dura e carnosa mi colpì il femore e io mi accorsi con orrore che Zack aveva un'erezione.

Subito dopo, inghiottii una boccata di acqua che mi bruciò la gola; ormai non avevo più dubbi: volevano uccidermi.

Poi, all'improvviso, Zack e Alison desistettero. Lei scivolò via dalla mia schiena e automaticamente il mio corpo rimbalzò verso l'alto.

Mi aggrappai al bordo roccioso della cava, tossendo dolorosamente. Rigurgitai l'acqua come una boccata di vomito. Di uscire dalla cava, non se ne parlava nemmeno. Riuscii a malapena ad assicurare le mie deboli braccia sul bordo, poi la testa mi crollò di lato. Dopo un po' riuscii a sollevarmi quel tanto che bastava per appoggiare gli avambracci sulla pietra calda e vi reclinai sopra la testa per riprendere le forze. Attraverso gli occhi semiaperti, indovinai la figura di Zack che scivolava fuori dalla cava e guadagnava la roccia con l'agilità di un'anguilla. Poi si chinò ad afferrare la mano che Alison gli porgeva. Per poco quel bastardo non mi ammazzava e la cosa lo aveva pure eccitato, pensai; di colpo fui sopraffatto da un sentimento misto di rabbia e di paura, che mi dette la forza di issarmi sulla roccia. Rabbrividendo, mi distesi al sole, con la pelle che mi bruciava per il contatto con la pietra liscia e rovente.

Zack si sedette accanto a me. Io vidi solo la sua gamba da ragno, con i peli neri e sottili incollati alla pelle candida. «Ehi, Miles. Ehi, amico, stai bene?»

Rotolai sulla schiena; la pietra calda mi marchiò la pelle come il fuoco. Chiusi gli occhi, continuando a tossire. Quando li riaprii lui ed Alison erano sopra di me e i loro corpi oscuravano il sole, neri contro il cielo piatto e azzurro.

Alison si inginocchiò per ospitare la mia testa sulle sue gambe. «Lasciatemi in pace» dissi, dimenandomi e allontanandomi da loro. «Anche questo faceva parte del vostro piano?»

«Ma Miles! Era solo un gioco, stavamo scherzando.»

«Povero vecchio Miles! Ci è mancato poco che affogasse» gemette Alison avvicinandosi di nuovo e premendo il suo corpo contro il mio. Ero circondato da una pelle fresca e bagnata. Senza volerlo guardai Zack. «Mi dispiace, amico», mi disse manipolandosi inconsciamente i testicoli. Distolsi gli occhi e mi ritrovai a fissare i seni turgidi e morbidi di Alison e la sua pancia soda. «Dammi un asciugamano» le ordinai. Zack si alzò e si avviò verso il furgoncino.

Alison avvicinò il suo viso al mio. «È qui che è accaduto, non è vero? A Zack puoi dirlo. Gli puoi dire tutto. È per questo che ha voluto incontrarti qui. Ha sentito che ne parlavano da Freebo's. È per questo che sa che tu puoi capirlo e vuole che voi due siate fratelli. Non hai sentito quello che ti ha detto prima?»

Io cercai di alzarmi in piedi e dopo un attimo lei mi lasciò andare. Zack stava venendo verso di me: in una mano stringeva un asciugamano rosa, nell'altra un coltellino a serramanico aperto. Io indietreggiai.

Quando Zack lesse l'espressione sul mio viso, mi lanciò l'asciugamano e disse. «Ehi, amico. Volevo solo aiutarti a togliere quella benda. Ormai non ti serve più a niente.».

Dopo essermi legato l'asciugamano intorno ai fianchi, mi guardai la mano sinistra. La garza, intrisa d'acqua, si era afflosciata, scivolando oltre la metà del palmo. Prima che potessi spingerlo via, Zack mi prese la mano e tagliò la garza. Poi, con una mossa rapida mi strappò il cerotto.

Sopra la base del pollice c'era un triangolo rossastro di pelle nuova, delimitato da una riga più scura. La sfiorai cautamente con le nocche delle dita. La cute era ancora molto sottile, ma la ferita si era decisamente cicatrizzata. Zack gettò garza e cerotto in mezzo ai cespugli. Lo guardai: il viso, assai giovane, era incorniciato da capelli lunghi e lisci, come quelli degli Indiani; i suoi occhi sprizzavano di una gioia che rasentava la follia.

«Tu sei il mio migliore amico» disse protendendo la mano sinistra con il palmo rivolto verso l'alto, e mentre l'osservavo nella mia mente si rafforzò l'immagine di lui indiano magro e pallidissimo. Stava lì, davanti a me, scheletrico, con le costole che prominevano sotto la pelle nivea, i capelli gocciolanti e un'armatura di folle radiosità. I suoi occhi da cane emanavano una luce scintillante. «Te lo proverò, Miles. Possiamo essere fratelli.» Impugnò il coltellino come se fosse uno scalpello e si tagliò deliberatamente il palmo della mano sinistra. Poi lasciò cadere il coltello, ma continuò a tenere la mano tesa verso di me per invitarmi a premervi sopra la mia. Il rumore del metallo sulla pietra indusse Alison ad alzare gli occhi e non appena vide il sangue che gocciolava dalla mano di Zack si mise ad urlare. «Miles! Va' al furgone a prendere l'astuccio del pronto soccorso! Corri.»

L'espressione sul viso del ragazzo non mutò neanche di una virgola: era ancora imprigionato nella sua armatura di luce folle. «Sei stato tu» gli dissi, ancora incapace di capire del tutto la scena a cui avevo appena assistito. «Sei tu.»

«Miles» singhiozzò Alison. «Ti prego, corri, fa' presto.»

Zack continuava a guardarmi con occhi da cane e sorriso impudente. Per sfuggire alla luce che emanava il suo viso trionfante, lo aggirai, aggirai la Regina Guerriera che si stava precipitando verso di lui e mi fiondai a piedi nudi verso il furgoncino nero.

Quando spalancai una delle portiere posteriori, un oggetto che evidentemente vi si trovava appoggiato, cadde per terra. Abbassai gli occhi e riconobbi una sagoma famigliare che rotolava nella polvere: era una delle vecchie, fiancute bottiglie di Coca da 250 ml.

«Perché l'hai fatto?» mi chiese Alison, ancora nuda ma con la pelle già asciugata dai caldi raggi del sole; solo i capelli erano ancora fradici d'acqua. Guardai la copertina di Lei che affondava lentamente nella cava. Avvertivo la presenza di Zack, in piedi, dietro di noi, accanto al coltello che aveva lasciato cadere sulla pietra calda. Mi rendevo conto che le ragioni erano troppe per poterle condensare in una sola risposta. Stavo spedendo un frammento di Alison nel luogo in cui era morta. Ero infuriato con tutti e due e con me stesso, per non essere capace di valutare con chiarezza il sospetto che era sorto in me nel vedere la bottiglia di Coca rotolare fuori dal furgoncino di Zack: quella vista mi aveva fatto ritornare alla mente le parole di Orso Polare. Ero sopraffatto dalla rabbia e dal disgusto e il fatto che avessi buttato via un oggetto a cui tenevo era il mio modo per dire che avevo visto la dannazione in faccia. Mentre frugavo nel furgoncino avevo rinvenuto, luccicante in mezzo ad un mucchio di pezzi di ricambio, uno dei pomelli che avevo staccato dalla porta di Duane prima di utilizzarla come piano per la mia scrivania.

«Allontanati da lui» disse Zack. «Ally, schioda il culo e vieni qui.»

«Perché?»

«Alison» replicai io con voce pacata. «Zack è nei guai. Penso che dovresti stare alla larga da lui.»

«Tu non lo capisci. Nessuno lo capisce.»

«Segui il mio consiglio» mi limitai ad aggiungere. «Per favore.» Con mia sorpresa, nonostante tutto, avvertivo il fascino del corpo stile Maillol della ragazza nuda verso la quale mi stavo chinando.

 

Quella notte e anche quella seguente sognai di essere di nuovo sospeso nell'orrore blu, morto e colpevole al di là di ogni possibile perdono o aiuto. L'orrore blu era la cava, l'acqua profonda e impietosa della cava in cui l'avevo lasciata morire, e quello era il più grande peccato che avessi commesso in vita mia; il peccato per il quale mi disperavo e che consideravo il crimine più esecrabile di cui si fosse mai macchiata creatura umana: il crimine per il quale lei non mi avrebbe mai perdonato. Penso di aver pianto anche nel sonno e di aver digrignato i denti. Loro erano stati là e io non ero riuscito a mandarli via, quei maledetti assassini che avevano defraudato lei e me della vita. Era una colpa senza fine da cui solo lei, ritornando, avrebbe potuto liberarmi. Io mi ero immerso due volte nell'acqua fredda della cava e per due volte l'avevo bevuta, ma ne ero uscito vivo: anche quello era un crimine, perché lei invece non ce l'aveva fatta.

Domenica notte mi svegliai verso le due ridotto in uno stato pietoso; annusai l'aria come un animale e mi precipitai in cucina appena in tempo per chiudere le manopole del gas. Il fatto che l'incidente si fosse ripetuto sembrava avvalorare l'ipotesi del guasto tecnico. Ciò che mi aveva svegliato, e quindi salvato la vita, era stato lo squillo del telefono. Alcuni giorni prima avevo detto ad Alison che se avessi ricevuto una di "quelle" telefonate di notte, non avrei risposto. Ma adesso, dopo aver chiuso le manopole dei bruciatori, ed aver spalancato la finestra per far entrare l'aria fresca del prato, ero dell'umore più adatto per trattare con Alito di Cipolla. «Maledetto verme, strisciante e viscido» urlai nel ricevitore. «Schifosa serpe, deforme e infida». Incapace di usare la sintassi, ma con una riserva pressoché infinita di aggettivi a cui attingere, proseguii in questo tono fino a quando il mio interlocutore (o interlocutrice) non riappese. Non potevo ritornare a dormire con il terrore di ripiombare neìl'incubo dal quale mi ero risvegliato di soprassalto poco prima. La cucina era gelida: agitai un giornale per disperdere il gas e chiusi la finestra. Dopo essermi gettato sulle spalle una coperta che avevo trovato nella vecchia camera da letto del pian terreno, accesi una lampada al kerosene, presi sigarette e accendino e preparai sul tavolo alcuni degli altri elementi di cui avevo bisogno per creare l'ambiente-Alison: gin, vermouth, un fetta di buccia di limone, ghiaccio. Erano gli ingredienti del suo drink preferito, con cui io mi curavo di notte. Avvolto nella coperta, con il bicchiere in una mano e la sigaretta nell'altra, mi sedetti accanto al telefono. Volevo che qualcuno mi chiamasse.

Dopo una mezz'oretta, quando (pensai) il mio misterioso persecutore doveva aver risolto che mi fossi riaddormentato, il telefono squillò di nuovo. Lo lasciai suonare a lungo, ascoltando l'eco che si diffondeva nelle fredde stanze della fattoria. Alla fine, mi alzai e afferrai il ricevitore, pronto a vomitare nell'imboccatura una lunga sequela di improperi. Ma anziché il solito respiro che sapeva di cipolla e di birra, udii quello che avevo già udito un'altra volta prima di quella notte: uno sfarfallio, accompagnato da un rumore sordo e ritmato: un suono che non aveva nulla di umano, ma assomigliava piuttosto ad un rapido battito d'ali. La cornetta era ghiacciata come il bicchiere che stringevo in mano; la mia lingua sembrava paralizzata e io non riuscivo a parlare. Lasciai cadere il ricevitore, mi avviluppai nella coperta e salii in camera per sdraiarmi sul letto. La notte dopo, come ho detto, - quella successiva al giorno che segnò la prima svolta decisiva - feci il medesimo incubo, ma non ricevetti alcuna telefonata anonima, né da vivi, né da morti.

Il lunedì, il giorno fra quelle due terribili notti in cui appresi la verità, scesi in cucina all'ora di pranzo e chiesi a Tuta Sunderson, che ostentava un distacco ancor più marcato del solito, se fosse possibile chiudere il gas prima che arrivasse agli ugelli. Tuta accentuò l'aria di disapprovazione: brontolando, si piegò sopra la cucina economica e, puntando il grasso indice, mi indicò un tubo che scendeva lungo la parete. "C'è un rubinetto, lì su quel tubo. Ma a che cosa ti serve?»

«Voglio prendere l'abitudine di chiuderlo prima di andare a letto.»

«Non prendermi in giro» bofonchiò lei, o così a me parve di sentire, mentre mi voltava le spalle e affondava le mani nelle tasche del cardigan. Poi, a voce più alta, aggiunse: «Hai dato spettacolo, ieri in chiesa.»

«Così pare. Comunque immagino che le cose siano continuate benissimo anche senza di me.» Diedi un morso all'hamburger e mi accorsi di non avere fame. Il mio rapporto con Tuta Sunderson era degenerato in una parodia del mio matrimonio.

«Avevi paura di quello che il pastore stava dicendo?»

«Per quello che ricordo, ha fatto un commento molto gentile sul mio abbigliamento.»

Quando vidi che stava trascinando il suo dolce peso verso la porta, dissi:«Aspetti un momento. Che cosa sa di un ragazzo di nome Zack? Penso che abiti ad Arden. È alto, molto magro e porta i capelli alla Elvis Presley. È il ragazzo di Alison. La chiama "Ally".»

«Non lo conosco. Comunque se ha deciso di sprecare del buon cibo, almeno si tolga dai piedi, così posso andare avanti con i mestieri.»

«Buon Dio» esclamai e andai a sedermi sulla veranda. L'alito freddo dello spirito, che si avvertiva solo in quei venti metri quadrati, era una presenza forte, viva ed in quel momento io ebbi la matematica certezza che Alison sarebbe tornata il giorno in cui ci eravamo dati appuntamento vent'anni prima. Questa volta, però, quella intuizione non fu accompagnata dal solito moto di gioia, ma da un sentimento di rassegnazione. La sua liberazione sarebbe stata anche la mia, pensai. Fu solo più tardi che mi resi conto che quando Tuta Sunderson aveva detto di non conoscere Zack, non aveva inteso dire che per lei era uno sconosciuto, ma che lo conosceva bene e lo detestava.

Però, se la mia liberazione doveva essere completa, c'erano alcune cose che dovevo sapere, e il frastuono metallico che proveniva dalla rimessa di Duane mi forniva un'ottima opportunità per approfondire il discorso. Lasciai Tuta Sunderson a lagnarsi in cucina e mi avviai lungo il sentiero inondato di sole che portava alla casa di mio cugino.

Man mano che mi avvicinavo al capannone, il baccano aumentava, finché vi si aggiunsero anche i grugniti di Duane. Zigzagai fra un guazzabuglio di parti meccaniche arrugginite e di arnesi sparsi davanti all'ingresso anteriore ed entrai. Sotto l'alto tetto di metallo, Duane stava lavorando immerso nella semi-oscurità: armato di una chiave inglese, stava percuotendo furiosamente la base del cambio di un trattore. In mezzo alla polvere, accanto agli stivali, intravvidi il suo inseparabile berrettino con visiera.

«Duane» lo chiamai, ma con tutto il chiasso che stava facendo, lui non mi sentì. Il suo viso era contratto in una smorfia di rabbia impotente, tipica di chi, con impazienza e ottusità, si accanisce a condurre a termine un lavoro che, fin dalle prime battute, si profila disastroso.

Lo chiamai una seconda volta e lui si voltò, ma quando feci per avvicinarmi girò di nuovo la testa e, senza dire una parola, riprese a martellare freneticamente.

«Duane, ti devo parlare.»

«Fuori di qui, Miles» sibilò continuando a fissare il cambio e ad accanirvisi contro con la chiave inglese.

Io avanzai verso di lui, assordato dal frastuono che riecheggiava contro le pareti di metallo.

«Dannazione!» urlò quando mi avvicinai. «Devo riuscire a tirare fuori questo schifosissimo figlio di puttana.»

«Che cosa c'è che non va?»

«Questo fottuto cambio, se proprio lo vuoi sapere» ringhiò mio cugino. La sua camicia marroncina era chiazzata di sudore e uno sberleffo di grasso gli divideva in due la fronte bianca. «Si è inceppato e in questi vecchi M bisogna andar dentro dall'alto e spostare un paio di piastre per poter riallineare le scanalature. Ma perché sto a perdere il mio tempo con te, che conosci solo Shakespeare e un cambio non sai nemmeno che cos'è?»

«In effetti è proprio così. Penso di non averne mai visto uno in vita mia.»

«Comunque, in questo caso, bisogna tirare fuori l'intero meccanismo perché la ruggine ha inchiodato tutto. Ma per fare questo bisogna prima togliere questi dadi, li vedi?»

«Ho capito.»

«E poi, magari, dopo aver fatto tutta questa fatica scopro che c'è la batteria scarica e, dal momento che il carica-batterie mi si è rotto l'ultima volta che l'ho usato sul camion, alla fine della fiera il trattore non riuscirò a farlo funzionare lo stesso.»

«Ma almeno sarai riuscito a togliere i dadi.»

«Come no. E allora perché non te ne vai a spaccarmi qualche altro mobile e mi lasci lavorare in pace?» Salì sul trattore e cominciò a ridurre l'apertura della chiave inglese per adattarla alle dimensioni dei dadi.

«Ho bisogno di parlarti di una cosa.»

«Non ho niente da dirti. Dopo il tuo comportamento di ieri in chiesa, nessuno di qui ha più niente da dirti.» Si voltò e mi fissò. «Almeno, non per il momento.»

Io lo osservai mentre svitava i bulloni e li appoggiava su un foglio di giornale unto, vicino alle ruote posteriori del trattore. Poi, grugnendo, estrasse le leve del cambio, e la piastra annessa, dal corpo della macchina. Quindi si inginocchiò davanti al sedile e si chinò. «Merda!»

«Che cosa c'è che non va?»

«Qui è tutto pieno di grasso e non riesco a vedere le scanalature, ecco che cosa c'è che non va.» Sollevò di nuovo su di me il suo viso piccolo e paffuto. «Ma quel che è peggio è che, anche se riesco a ripararlo, durerà al massimo una settimana, e poi sarò di nuovo punto e a capo.» Cominciò a grattare via la patina oleosa che copriva gli ingranaggi con la punta del cacciavite. «Non ci dovrebbe nemmeno essere tutto questo grasso qui.» Poi, afferrò con impazienza uno straccio che gli spuntava dalla tasca della tuta e cominciò a passarlo all'interno del buco che aveva aperto.

«Volevo farti alcune domande a proposito di...» stavo per aggiungere di Zack, ma lui mi prevenne.

«Non di quello che mi accennavi ieri davanti alla chiesa. Non ho niente da dire in proposito.»

«Alison Greening?»

Il suo viso si irrigidì.

«Tu non sei mai andato a letto con lei, vero?» Vedendolo lì, accovacciato sul trattore come uno schifosissimo rospo, mi sembrava una cosa impossibile. Cominciò a sfregare con più forza, il viso duro e impenetrabile come la pietra. «Vero?»

«Okay, d'accordo.» Tirò fuori lo straccio e lo gettò di lato. «E se l'avessi fatto? Non ho fatto del male a nessuno, se non a me stesso, immagino. Per quella piccola puttana era come leggere un nuovo giornalino di fumetti. E con me l'ha fatto soltanto una volta. Poi, tutte le volte che le ho chiesto di rifarlo, lei mi ha riso in faccia.» Mi guardò con durezza. «In ogni caso eri tu il suo preferito, perciò che te ne frega? Lei mi faceva sentire un pezzo di merda e ci godeva un mondo.»

«Allora perché hai chiamato tua figlia come lei?»

Cominciò a tirar fuori qualcosa dall'interno del trattore. Stava tremando.

Era tutto chiaro. L'avevo capito il giorno prima, quando avevo visto i cespugli morenti e, all'improvviso, mi era ritornata alla mente l'immagine fugace di una camicia bianca intravvista vent'anni prima dietro le foglie. «Tu ci hai seguito fino alla cava, non è così? Lo so che la storia dell'automobilista che ha sentito le grida è tutta una menzogna. Lo so, perché ho verificato che per quanto una persona urli forte, dalla strada non si sente niente.»

Un violento rossore gli imporporò il viso.

«Il che significa che su alla cava c'era qualcun altro, oltre a noi due, qualcuno che ci ha aggrediti. E quel qualcuno eri tu. Poi, quando ti sei accorto che lei era morta, sei scappato e hai chiamato la polizia.»

«Non è vero, non è vero!» urlò, battendo il pugno sul sedile del trattore. «Accidenti a te, Miles. Dovevi proprio tornare qui, eh? Tu con tutte le tue balle.»

«Vent'anni fa, non io, ma qualcun altro ha raccontato una balla e continua a raccontarla da allora.»

«Aspetta un attimo». Mi fissò con il volto in fiamme. «Chi ti ha detto di me e di Alison?» Io non gli risposi, ma dalla rabbia che gli leggevo negli occhi, mi resi conto che aveva capito.

«Me l'ha detto. La sola persona a cui l'avevi confidato, Orso Polare.»

«E che cos'altro ti ha detto Hovre?»

«Che tu la odiavi. Ma questo io lo sapevo già. Solo che non riuscivo a capire perché.»

Poi, Duane disse una frase di troppo. «Hovre ti ha parlato di lei?»

«Non proprio. Si è lasciato solo sfuggire che...» Osservai il viso di mio cugino, scaltro e terrorizzato al tempo stesso, e capii. O almeno, intuii una parte della verità. Avevo sentito un colpo di tosse provenire da un lato della cava e un fischio dalla parte opposta.

«Prova a dimostrare qualcosa» disse Duane. «Non puoi dimostrare niente.»

«Orso Polare era lì con te» bisbigliai quasi senza crederci. «Siete venuti tutti e due alla cava e ci siete saltati addosso. La volevate tutti e due. Non può che essere così... Orso Polare passava tutti i giorni dalla fattoria per guardarla...»

«Io devo aggiustare il mio trattore. Fuori dai piedi, Miles.»

«E tutti pensavano che fossi stato io. Anche mia moglie lo pensava.»

Imperturbabile, Duane rimise a posto le leve del cambio e cominciò ad avvitare i dadi. Era evidente che quella conversazione l'aveva profondamente scosso e che non aveva il coraggio di guardarmi negli occhi. «Faresti meglio a parlare con Hovre. Io non dirò una parola di più.»

Fui sopraffatto dalla medesima sensazione di disperato terrore che avevo provato quando Zack e la Regina Guerriera mi avevano tenuto sott'acqua, e riuscii a a malapena a sedermi su un fusto d'olio, prima che le mie gambe cedessero. Duane non era abbastanza intelligente da essere anche un bravo bugiardo e il suo impassibile, stupido rifiuto di parlare equivaleva ad una confessione. «Oh, Dio!» bisbigliai, e mi accorsi che mi tremava la voce.

Duane aveva aperto il motore del trattore e adesso mi voltava le spalle. Aveva le orecchie rosse come due tizzoni ardenti. Come quel giorno, alla tavola calda di Plainview, sentii crearsi fra di noi un'atmosfera di violenza.

Al tempo stesso, mi resi conto della forza con cui le impressioni sensoriali si stavano fissando nella mia mente e mi ci aggrappai per non impazzire: il grande spazio semi-buio, aperto su due lati; lo spesso strato di polvere marrone, soffice e granulosa insieme, che ricopriva il pavimento di terra battuta; gli arnesi e i pezzi di ricambio sparsi per terra; dischi, frecce e altri oggetti che non riuscivo ad identificare e che necessitavano per lo più di una mano di pittura; il grande trattore nell'angolo; il passerotto che era volato via quando mi ero seduto sul fusto; la mia gola serrata e le mani che mi tremavano; le pareti di metallo rovente e l'ampio spazio sopra le nostre teste, immenso, come se dovesse ospitare una giuria di osservatori; l'uomo di fronte a me che percuoteva qualcosa all'interno di un trattore più piccolo, il sudore che gli chiazzava la camicia, la sua tuta sporca di grasso e l'odore di polvere da sparo che sovrastava tutti gli altri odori. La consapevolezza di trovarmi di fronte all'assassino di Alison.

«È pazzesco» dissi. «E pensare che non ero neanche venuto qui per parlare di questo. Davvero.»

Duane lasciò cadere la chiave inglese e si sporse a guardare il motore, puntellandosi sulle braccia.

«Ma adesso non ha più nessuna importanza. Presto, tutto questo non conterà più niente.»

Duane non si mosse.

«Dio, questo è proprio strano. Ero venuto per parlarti di Zack. Poi, quando hai nominato Alison, mi è venuto in mente quello che mi aveva detto Orso Polare...»

Mio cugino si allontanò dal trattore e, per un momento, ebbi il terrore che si sarebbe avventato su di me. Invece si diresse verso il fondo della rimessa. Dopo alcuni istanti ritornò con un martello, con il quale si mise a colpire selvaggiamente il trattore, come se non gli importasse di danneggiarlo o come se immaginasse di colpire qualcos'altro...

Dalla casa di mia nonna mi giunse l'eco flebile di una porta che sbatteva. Era Tuta Sunderson che se ne tornava a casa.

Anche Duane lo udì e per qualche misteriosa ragione si calmò. «D'accordo, figlio di puttana. Chiedimi di Zack. Ehi, mi hai sentito?» Siglò la sua richiesta sferrando una violenta martellata alla carrozzeria del trattore.

Alla fine si voltò e mi guardò in faccia. Era rosso fuoco e sembrava sul punto di esplodere. «Allora, che cosa vuoi sapere di quel bastardo buono a nulla? È pazzo come te.»

Riudii i richiami e i fischi di quella terribile notte, rividi il baluginio della camicia bianca dietro i cespugli e sentii il colpo di tosse di un ragazzo nascosto dietro le foglie. L'avevano guardata con la fame che hanno gli uomini a vent'anni, mentre scivolava nell'acqua nera, nuda e scintillante come una stella. Poi si erano spogliati, rapidi e silenziosi ed erano saltati addosso a lei e al ragazzo. Il ragazzo, l'avevano messo fuori gioco prima ancora che potesse rendersi conto di quello che stava accadendo; poi ne avevano trascinato il corpo a riva, prima di aggredire la ragazza.

«Vuoi sapere che cos'hanno di buffo le persone come te?» disse Duane, quasi urlando. «Che credono sempre che quello di cui vogliono parlare sia importante. Sono convinte che quello che loro vogliono dire sia una specie di fottutissimo regalo per la gente come me. Tu pensi che quelli come me siano dei poveri idioti, vero, Miles?» Sputò per terra e sferrò un altro assordante colpo al trattore. «Io odio tutti i maledetti professori come te, Miles, e tutti i fottuti scrittori di questa terra.» Si voltò rabbiosamente verso la macchina, si chinò sul cofano ed estrasse un tubo di fissaggio. Quindi, gli assestò un paio di colpi con il martello, dal che capii che doveva essersi rotto qualcosa all'interno del morsetto. Poi, in preda ad una crisi isterica, cominciò a pestare i piedi per terra, sollevando nuvole di polvere scura. «Così, volevi sapere di Zack, eh? Che cosa vuoi che ti racconti? Della volta che si è barricato in casa e che hanno dovuto abbattere la porta con le asce per tirarlo fuori? Questo è accaduto quando aveva nove anni. Oppure ti interessa di più la storia di quando ha preso a botte una vecchia signora di Arden solo perché lo guardava in modo strano? Aveva tredici anni. Oppure vuoi sapere dei furti che commette in continuazione. Per non parlare dei fuochi che appicca dovunque gli salta il grillo. Non lo sapevi che è un piromane? Ah, e poi c'è...» All'improvviso si chinò in avanti, come un airone su una rana e disse: «Eccone qua uno, dannazione. E poi c'è la storia di Hitler. Sai, io pensavo che vinta la guerra fosse tutto finito, e invece no! C'è qualche intelligentone, qualcuno sicuramente più in gamba di un povero imbecille come me, che pensa che Hitler fosse un brav'uomo e che in realtà abbia vinto perché ha fatto questo e ha fatto quello. L'assistente sociale che lo seguiva una volta ha detto che è diventato cattivo come una biscia perché non ha avuto una madre...» Adesso si stava avvicinando di nuovo al trattore, per riprendere in mano il tubo di fissaggio...

...tossendo, dietro i cespugli, mentre si sbottonava con impazienza la camicia bianca e si slacciava gli stivali. Poi doveva aver sentito il fischio d'intesa: due minuti, cinque minuti e sarebbero saltati addosso alla ragazza e l'avrebbero punita per quel suo atteggiamento sprezzante nel modo più semplice che conoscevano. La ragazza che avevano sentito dire: Non mi risulta che gli uccelli tossiscano...

Lo sentii gemere. Il frastuono cessò e il martello cadde con un tonfo. Duane balzò a terra tenendosi il polso della mano sinistra e, con una rapidità di cui non lo ritenevo capace, schizzò fuori dalla rimessa. Quando lo raggiunsi, stava a gambe larghe accanto al guazzabuglio di pezzi di ricambio arrugginiti e si stava esaminando la mano. Si era tagliato la pelle alla base del pollice.

«Poteva andarmi peggio» commentò, premendo la mano contro la tuta.

Allora non avrei saputo dire perché scelsi proprio quel momento per dirgli: «Lo sai che l'altra notte c'è stata di nuovo una fuga di gas alla fattoria?» Ma adesso mi rendo conto che era stato quel suo incidente a farmi venire in mente, per associazione, quello che era successo a me.

«E tutto marcio in quella casa» mi rispose lui tenendo premuta la mano contro la stoffa sudicia dei pantaloni. «Farei meglio a tirarla giù.»

«Qualcuno mi ha detto che potrebbe essere un avvertimento.»

«Tu puoi prendere come avvertimenti tutti quelli che intendi considerare tali» mi rispose mio cugino e, con quella frase sibillina, che altro non era che un avvertimento inutile come tutti quelli che l'avevano preceduto, si avviò verso casa sua.

 

Io ritornai alla fattoria e telefonai alla stazione di polizia di Arden. Non volevo accusare Orso Polare o cercare una futile vendetta: volevo semplicemente sentire di nuovo la sua voce, e ripensare, mentre lo ascoltavo, a quello che adesso sapevo o credevo di sapere. Mi sentivo senza fondo, come si diceva fosse la cava, e privo di direzione come l'acqua ferma: ma non ricordo di aver provato neanche un po' di rabbia. Mi venne in mente la stizza con cui Orso Polare aveva colpito il volante e mi aveva detto: "Di tutti i nomi a cui potevi pensare proprio Greening dovevi andare a scegliere?" Quello era Larabee all'opera, Larabee che teneva nascoste le cose "per il mio bene", come avrebbe detto Orso Polare usando la sua personalità-Larabee. Ma Hovre non era in ufficio e Dave Lokken si limitò a dirmi, con riluttanza, che avrebbe riferito al Capo che lo avevo cercato.

Salii al piano di sopra. La camera che avevo trasformato in studio mi parve angusta come il giorno del mio arrivo. Quel che restava dei libri, che inizialmente avevo impilato sul pavimento, era ammucchiato in un angolo a prendere la polvere; la macchina da scrivere era per terra nella sua custodia. Io stavo scrivendo le mie memorie a matita, perché ero troppo imbranato come dattilografo per lavorare alla velocità che mi era necessaria. Dei raccoglitori pieni di appunti e dei pacchi di schede avevo fatto un falò una settimana e mezzo prima. Avevo letto da qualche parte che prima di volare gli uccelli cacano, ed io stavo seguendo un processo analogo: mi stavo spogliando di me stesso per poter prendere il volo, per poter essere più leggero.

Spesso lavoravo fino a quando non crollavo addormentato sulla scrivania. E questo fu quello che accadde anche lunedì sera. Mi risvegliai più o meno nello stesso momento, presumo, in cui gli uomini di Arden stavano marciando alla volta della casa di Roman Michalski, vanificando così i piani di Galen Hovre. Mi bruciavano gli occhi ed avevo la sgradevole sensazione di avere la bocca e lo stomaco pieni di sigari. La stanza era gelata e avevo le dita fredde e dure. Mi alzai in piedi e andai alla finestra. Fu allora che mi resi conto che Orso Polare non aveva richiamato. Nel prato, rischiarato dalla luce della luna, la giumenta gettò indietro la testa. Quando sollevai gli occhi sui campi più lontani, al limite del bosco, la vidi di nuovo. Era immobile, nella solita posizione volpina, ma questa volta non si curava di farsi scudo degli alberi per celarsi alla mia vista, e fissava apertamente la casa. Io non riuscivo a distogliere lo sguardo e rimasi lì, in mezzo alla corrente gelida, ad assaporare la sua energia che fluiva verso di me. Poi sbattei le palpebre e quando guardai di nuovo, lei non c'era più.

 

CAPITOLO NONO

 

Quando il rumore della moto di Zack mi risvegliò dalla mia seconda notte consecutiva di incubi, rimasi sdraiato per un po' nella luce grigia del mattino, in preda ad un autentico sconforto. Per la seconda volta, pensando ad Alison Greening non provai alcuna gioia. Erano accadute le cose sbagliate: io ero nella camera sbagliata e nel posto sbagliato. Io ero l'uomo sbagliato. Immagino che sia la stessa sensazione che prova una giovane recluta, quando, dopo essersi arruolata, assecondando confusi ideali, amore per l'avventura e voglia di sfuggire la noia, si ritrova infreddolita, affamata, maltrattata dai superiori e in procinto di andare al fronte. Non riuscivo a pensare al da farsi. Sarei potuto andare da Orso Polare a raccontargli quello che avevo scoperto di Zack - ma ne ero proprio sicuro? (Sì, o almeno pensavo di esserlo.) Ma il mio rapporto con Hovre era irremediabilmente compromesso. Ricordavo fin troppo chiaramente di averlo sentito dire che considerava normale la violenza carnale. Non erano forse vent'anni che ripeteva a se stesso quella frase?

Mi rendevo conto che il mio ritorno ad Arden aveva turbato soprattutto lui e Duane. Io ero l'ultima persona sulla faccia della terra che avrebbero voluto rivedere, soprattutto perché avevo cominciato a a parlare di Alison Greening dal primo momento in cui avevo messo piede nella valle.

Poi ripensai alla figura volpina che avevo visto la sera prima, mentre puntava il viso verso la fattoria come se fosse una pistola carica; riflettei anche sulla visione che avevo avuto la notte in cui stavo per morire avvelenato dal gas e sullo strano fenomeno delle luci della casa, che si erano accese tutte insieme, facendo assomigliare la fattoria ad una barca in rada. Non ero stato perdonato.

Mi chiesi fino a che punto conoscessi, o meglio avessi conosciuto, mia cugina Alison. La sua immagine, fatta di foglie e di rami d'albero mi apparve di nuovo davanti agli occhi e io mi alzai di scatto dal letto, mi infilai l'accappatoio e scesi in cucina.

Adesso ho quasi paura di lei, pensai, ma la mia mente prontamente rettificò: hai sempre avuto paura di lei.

Ero scalzo e avevo i piedi gelati.

Quando il telefono squillò, esitai un attimo prima di alzare il ricevitore. Che fosse Orso Polare, già in piedi dopo una notte insonne? Non mi risulta che gli uccelli tossiscano. La sua voce appassionata ed elettrica mi riecheggiava nelle orecchie. Quando avvicinai l'auricolare, avvertii un odore di grasso di balena e capii subito che non avrei dovuto risolvere il dilemma di che cosa dire a Galen Hovre. Lei disse: «Signor Teagarden? Miles?»

«Presente.»

«Oggi non posso venire al lavoro, perché sono malata.»

«D'accordo, ma...» Mi interruppi subito, perché lei aveva già riappeso, e fissai stupidamente il ricevitore, come se potesse spiegarmi il comportamento di Tuta Sunderson.

La spiegazione l'ebbi circa un'ora più tardi, mentre, seduto alla scrivania, cercavo di concentrarmi sul lavoro per non pensare. Era una tattica che conoscevo bene e a cui ero spesso ricorso con successo durante il mio matrimonio. L'impegno intellettuale è un provato espediente per cacciare i cattivi pensieri, ma quella mattina le preoccupazioni che mi affollavano la mente erano assai più assillanti di quelle che mi procurava Joan tradendomi con il Dribble di turno; e infatti, riuscii a malapena a scrivere mezza pagina delle mie memorie prima di crollare sul tavolo con il viso madido di sudore, in preda alla più cupa desolazione. Gemetti. Il fatto di aver ammesso a me stesso di provare disagio, inquietudine e paura di fronte all'attuarsi del voto che avevo contratto con mia cugina aveva provocato una sorta di enorme voragine nella mia psiche. Mi ritornarono alla mente le dure parole di Rinn ed ebbi la sensazione di essere scagliato di nuovo nell'orrore blu del sogno, come se neppure la veglia potesse separarmi da quello stato di indicibile angoscia. I sensi di colpa continuavano a perseguitarmi: quella mia vocazione alla colpa superava di gran lunga quella accademica.

Alison Greening era la mia vita. Con la sua morte, io come persona avevo perso significato, avevo perso la felicità. Ma se Rinn avesse avuto ragione e quel significato e quella felicità fossero stati falsi e illusori fin dall'inizio? E se io, ritornando nella valle, avessi portato con me la morte? O se non la morte, il suo marchio? Il terrore che avevo provato nel bosco mi assalì di nuovo e io mi alzai di scatto e uscii dalla stanza.

Discesi le scale con la sensazione di essere inseguito da quell'esile figura, dall'atomo del bosco.

Ciò che vidi, appena giunsi al pian terreno, mi riportò bruscamente alla realtà. Adesso capivo perché Tuta Sunderson si fosse rifiutata di venire al lavoro quella mattina: erano lì sulla strada, in attesa come avvoltoi.

 

Perché era proprio ad avvoltoi che assomigliavano, seduti nelle loro macchine, con il motore spento, poco oltre la fila dei noci. Non li vedevo in faccia, ma riuscivo ad immaginarli mentre, uno dopo l'altro, convergevano da Arden e dagli altri paesini della valle e, all'ora stabilita si fermavano lungo la strada davanti alla fattoria. In un modo o nell'altro erano venuti a conoscenza della scomparsa di Candice Michalski.

Il terrore mi prosciugò la gola. Dal punto in cui mi trovavo, in cucina, riuscivo a vederne una ventina, ciascuno seduto da solo nella propria auto, tutti uomini.

In un primo momento, come un bambino, pensai di telefonare a Rinn, di invocare la sua protezione.

Deglutendo, passai in salotto e aprii la porta che dava sulla veranda. Adesso li vedevo tutti. Le loro macchine occupavano l'intera carreggiata e, poiché avevano tutte il muso rivolto nella stessa direzione e alcune erano addirittura affiancate a tre a tre per ostruire il passaggio, era chiaro che dovevano essere andati a fare inversione nel vialetto d'accesso che porta alla casa di Duane. La loro cupa immobilità esprimeva una minaccia che era come una forza fisica. Arretrai nell'oscurità della stanza. Gli uomini che riuscivo ad individuare, incorniciati dallo stipite della porta, erano seduti di traverso, con il viso rivolto alla veranda.

Uno, più impaziente degli altri, suonò il clacson. Nessuno rispose al suo richiamo e allora capii che non avevano alcuna intenzione di scendere dalla macchina.

Uscii sulla veranda per farmi vedere. Qualcuno suonò di nuovo il clacson. Era un segnale: è uscito. Contemporaneamente, alcuni girarono la testa e mi fissarono.

Ritornai in cucina e telefonai alla stazione di polizia. Riconobbi subito la voce dall'altra parte del filo: era Lokken.

«No, non c'è dannazione. Ieri sera si è scatenato l'inferno qui. È uscito con due altri poliziotti alla ricerca della ragazza.»

«Allora adesso la notizia è di pubblico dominio.»

«È stato quel bastardo di Red Sunderson; ieri sera lui e alcuni suoi amici sono andati a casa di Roman Michalski e adesso sono tutti fuori dai beni. Corrono a destra e a sinistra, vogliono sapere... Dio santo abbiamo lavorato come... un momento, ma chi parla?»

«Cerchi di trovare Galen Hovre. In fretta. E gli dica di telefonare subito a Miles Teagarden, su alla fattoria degli Updhal. Ci sono dei problemi qui.» E io so chi è il responsabile, aggiunsi mentalmente. «Gli dica anche che forse ho alcune informazioni da dargli.»

«E che genere di informazioni sarebbero, Teagarden?» Improvvisamente, non ero più il signor Teagarden.

«Gli chieda se l'assassino potrebbe avere usato il pomello di una porta sulle sue vittime» gli risposi e sentii il mio cuore battere forte.

«Perché, ha forse perso il pomello di una porta, Teagarden?», replicò Lokken con quella sua insopportabile voce da bifolco. «Perché non chiama il suo amico Larabee e gli chiede di cercarlo? Che cos'è, si è bevuto il cervello, forse? Non lo sa che il Capo non le farà alcun piacere personale, Teagarden?»

«Lei si preoccupi solo di farlo venire qui.»

Gli uomini più vicini alla casa potevano vedermi telefonare e così, dopo che Lokken ebbe riattaccato, mi misi davanti alla finestra e tenni il cono di plastica nero premuto contro l'orecchio ancora per alcuni istanti. I primi due automobilisti della colonna accesero i motori, quindi facendo precedere un breve suono di clacson, si allontanarono. Altre due macchine scivolarono al loro posto. Giocherellai un po' con il ricevitore e poi feci il numero di Rinn. L'uomo che era al volante dell'auto più vicina alla fattoria, mi stava osservando. Dopo alcuni istanti anche lui suonò il clacson e se ne andò in direzione della superstrada. Nello spazio vuoto si insinuò subito il cofano di un camioncino blu. Il telefono di Rinn continuava a squillare; ad un tratto mi chiesi in che modo lei avrebbe potuto aiutarmi e riagganciai.

Uno dopo l'altro, udii accendersi i motori delle macchine rimaste e, subito dopo, un forte stridio di gomme sull'asfalto. Sentii i muscoli del collo che cominciavano a rilassarsi. Estrassi una sigaretta dal pacchetto che tenevo nel taschino della camicia e la accesi con un fiammifero da cucina. Le auto continuavano a sfilare sul prato per fare manovra: poi sterzavano e si reimmettevano sulla strada. Rimasi in attesa per due o tre minuti, fumando: vidi allontanarsi il camioncino blu, poi due auto insieme, una marroncina e una blu scuro, quindi una macchina grigia con un'impressionante ammaccatura sulla fiancata.

Quando ero ormai certo che se ne fossero andate tutte, vidi il muso di una Ford scura fare capolino all'interno della cornice della finestra e fermarsi.

Uscii sulla veranda. C'erano ancora tre uomini. Quando spalancai la porta, senza avere, per la verità, alcuna idea precisa sul da farsi, due di loro scesero dalle rispettive macchine. Il terzo, seduto al volante di un camioncino parcheggiato in prossimità dei noci, innestò la retromarcia e indietreggiò di alcuni metri per unirsi agli altri due. Quando balzò agilmente giù dalla cabina, vidi che si trattava di Hank Speltz, il meccanico del garage. Il prato di fronte alla casa era solcato dagli pneumatici e ridotto ad un pantano.

«Tu vai da quella parte che noi saltiamo il fosso» urlò uno dei due uomini dalla strada. Il ragazzo avanzò cautamente, con le braccia larghe. Uno degli uomini saltò il fosso e procedette attraverso il filare dei noci. Il secondo lo seguì a breve distanza. Assomigliavano ai tizi che avevo visto davanti all'Angler's Bar, quelli che mi avevano preso a sassate: marcantoni di mezza età, con la faccia da teppisti, la pancia che debordava dai pantaloni e la camicia a scacchi o marroncina aperta sul petto candido, dove un cerchio rosso alla base del collo indicava il limite di protezione della canottiera.

«Hovre sta venendo qui» gridai. «Quindi fareste meglio ad alzare i tacchi come hanno fatto gli altri.»

«Hovre non può arrivare in tempo per impedirci di darti la lezione che ti meriti» urlò l'uomo con la camicia a scacchi, che sembrava il capo.

«Che cosa ne hai fatto della giovane Michalski?» gridò l'altro.

«Io non so nemmeno di chi stiate parlando.» Cominciai ad avanzare lateralmente in direzione del garage e del sentiero che portava alla casa di Duane. Hank Speltz, la bocca spalancata e il volto aggrondato come un lottatore, mi stava per raggiungere. Gettai la sigaretta che stavo fumando in mezzo a quel che restava del prato e mi avvicinai al garage.

L'uomo che aveva parlato per primo gli disse: «Va' più piano» e il meccanico rallentò il passo, spostando il peso da un piede all'altro come un orso. «Vieni più avanti, Roy», ordinò poi all'altro. «Allora, dove l'hai portata?»

«L'ha nascosta da qualche parte in casa sua, te lo dico io.»

«Io non l'ho mai vista.» Continuavo a procedere di lato.

«Sta andando verso il garage» disse Hank.

«Lascia pure che ci vada, lo prenderemo lì» lo rassicurò l'uomo con la camicia a scacchi. Il suo viso, sormontato da un grande naso adunco, era bruciato dal sole e solcato di rughe; aveva la classica faccia da attaccabrighe, da bambino pestifero mai cresciuto. «Tienilo d'occhio, in caso gli saltasse in mente di correre verso quella Nash.»

«Di chi è stata l'idea?» chiesi io.

«Nostra, capoccione.»

Quando fui abbastanza vicino al garage, allungai una mano e aprii la porta. Guardai il fumo che saliva a spirale dalla sigaretta che avevo gettato per terra e mi resi conto che il mio piano poteva funzionare. «Su, coraggio, entra dentro, che ci faciliti il compito.» Sapendo che al minimo movimento brusco da parte mia, loro mi sarebbero saltati addosso, arretrai cautamente nell'oscurità della rimessa. Le tre taniche di benzina da dieci galloni erano esattamente dove ricordavo di averle viste il giorno in cui ero entrato a prendere il piede di porco per aprire il forziere. Ne presi una: era piena. Voltando momentaneamente le spalle ai miei tre aggressori, mi chinai e svitai il tappo. Quando riemersi dal buio stringendo fra le braccia il pesante contenitore, uno di loro scoppiò a ridere. «Che cosa vuoi fare, Teagarden, vuoi fare il pieno alla macchina?»

Solo l'uomo con la camicia a scacchi capì quello che stavo per fare. «Merda» urlò e si lanciò verso di me.

Ma in quello stesso istante io feci appello a tutte le mie forze e scagliai la tanica verso la spirale di fumo. Il contenitore rotolò per terra e il liquido cominciò ad uscire zampillando.

Per un attimo rimanemmo tutti immobili ad osservare la benzina che usciva, ma quando la deflagrazione squarciò l'aria, io stavo già risalendo il sentiero che porta alla casa di Duane. Qualcuno urlò di dolore. Una scheggia di metallo sfrecciò sopra la mia testa.

Feci appena in tempo a raggiungere la parete più vicina della casa di Duane. Quando mi voltai a guardare, vidi che l'uomo che si chiamava Roy stava rotolando per terra, mentre gli altri due si stavano lanciando attraverso il muro di fuoco. Il prato era punteggiato di tante piccole lingue rosse che giungevano fino alla fila dei noci. Adesso Hank e l'uomo con la camicia a scacchi si erano fermati per prestar soccorso al compagno rimasto a terra.

Se avevo ragione e la cantina di Duane era nata come cantina interrata alla stregua di quella dei miei nonni, potevo raggiungerla dall'esterno.

«Tanto Duane non ti aiuterà, lurido figlio di puttana!» urlò una voce deformata dalla rabbia.

Oltrepassai di corsa la pianta di sanguinello e quella di pisello odoroso che crescevano sull'angolo dell'abitazione e mi ritrovai nel prato di Duane.

«Maledizione, è morto!»

Non saprei dire che cosa avessi in mente: presumibilmente, meditavo di cercare scampo in cantina dove, se necessario, mi sarei potuto difendere con un'ascia. Mentre attraversavo il breve tratto erboso, vidi che non mi ero sbagliato: vicino al muro della casa, subito dietro l'angolo, sul lato che guarda la strada, si intravvedevano alcune assi di legno bianche: il vecchio accesso alla cantina. Con uno scatto fulmineo, mi chinai e aprii la porta. Quindi rotolai giù per gli scalini di terra fin sotto le lame scintillanti delle asce. Fu in quel momento che si accese una lampadina nella mia mente: i fucili! I fucili, chiusi nei loro astucci come mummie, e ordinatamente appoggiati contro la parete in fondo. Balzai in piedi e mi fiondai verso il muro dove avevo trovato la porta che avevo utilizzato come ripiano per la mia scrivania.

Afferrai il primo fucile che mi capitò sotto mano con custodia e tutto e affondai una mano nella scatola delle pallottole. Quindi, mi precipitai di nuovo verso la scala scavata nel terreno. Era come se fossi sott'acqua e stessi rapidamente risalendo alla luce, verso il rettangolo obliquo di aria azzurra scaldata dal sole. Imbracciai il fucile nel momento stesso in cui i due uomini e Hank Speltz aggiravano il sanguinello e il pisello odoroso. Aprii l'arma e misi due proiettili in canna. «Fermi dove siete» urlai e puntai il fucile contro il petto dell'uomo con la camicia a scacchi. Dopodiché, risalii cautamente la scala e uscii dalla cantina. Avevo il respiro così affannoso che non riuscivo quasi ad articolare le parole. I miei inseguitori abbassarono le braccia e rimasero per un attimo immobili, sul viso un'espressione mista di stupore e rabbia.

«E adesso alzate i tacchi.»

Anziché andarsene, i tre uomini cominciarono a disporsi in cerchio. Erano guardinghi come animali.

«Io non ho mai visto quella ragazza» dissi. «Non conoscevo nessuna delle ragazze uccise. Sapevo della Michalski soltanto perché Orso Polare mi aveva detto che era scomparsa.» Appoggiai il fucile alla spalla e lo puntai contro il triangolo di pelle bianca che si apriva sopra la camicia a scacchi. «Avvicinatevi e restate insieme. Smettetela di girare in tondo in quel modo.»

Obbedirono. L'uomo che si chiamava Roy zoppicava leggermente e teneva le mani alzate. La sua camicia marroncina era quasi completamente nera e, in alcuni punti, era percorsa da rivoli di sangue. Anche le sue mani erano nere. «Adesso camminate all'indietro, lentamente, fino a quando non avrete raggiunto le vostre macchine.»

Hank Speltz fece un passo indietro, finendo contro il sanguinello; si guardò attorno spaventato poi cominciò a costeggiare il prato. Gli altri due lo imitarono, ma senza mai staccare gli occhi dalla canna della carabina.

«Se sei innocente come dici, perché resti qui e non te ne vai?» chiese l'uomo con la camicia a scacchi.

Io gesticolai con il fucile.

«Per sfruttare quella vecchia pazza che abita su in mezzo al bosco» disse Hank Speltz. «Ecco perché. E che cosa mi dici di Gwen Olson e di Jenny Strand?»

«Lo stai chiedendo alla persona sbagliata, amico. E adesso schiodate il culo e tornate alle vostre macchine.»

Quando vidi che non si muovevano, spostai il fucile verso destra, levai la sicura e premetti uno dei due grilletti. Il rinculo fu così violento che per poco l'arma non mi sfuggì di mano. Il rumore dello sparo fu più forte di quello dell'esplosione della tanica di benzina. I tre uomini si allontanarono rapidamente dal sanguinello, dove il proiettile aveva spezzato diversi ramoscelli, disintegrando un ciuffo di foglie e alcuni fiori. L'aria si riempì dell'odore della polvere da sparo. «Prima, per poco non hai ucciso Roy» disse l'uomo con la camicia a scacchi.

«E invece lui che cos'era venuto qui a farmi? Avanti, muovetevi.» Sollevai la carabina e loro cominciarono ad arretrare.

Al di sopra delle loro spalle vidi quello che restava del grande prato antistante la fattoria. Ad una decina di metri dal vialetto d'accesso, un'enorme macchia nera di forma vagamente circolare indicava il punto in cui era scoppiata la tanica; altre piccole aree di terreno bruciato punteggiavano il terreno solcato in ogni direzione dagli pneumatici delle automobili. Un grande buco occhieggiava nella porta della veranda. Gli animali avevano cercato rifugio in fondo al campo attiguo.

«Ma non finisce qui» urlò l'uomo di cui ignoravo il nome.

«Hank, salta sul tuo camion e sparisci. Nei prossimi giorni verrò al garage a ritirare la mia macchina e non voglio guai, intesi?»

«Okay» mi rispose, fissandomi con occhi stralunati, e filò via.

Rimanemmo tutti e tre immobili a guardarlo, mentre balzava al posto di guida e si immetteva sulla strada della valle.

«Adesso tocca a te, Roy.» L'uomo ferito mi lanciò uno sguardo torvo e si avviò con passo pesante verso la fila di noci. Ad un certo punto si fermò per estinguere alcune deboli fiamme che minacciavano la base di un albero.

«E finalmente è arrivato anche il tuo turno» dissi all'uomo con la camicia a scacchi. «Fuori dai piedi.»

«Perché non ci ammazzi tutti? Tanto lo sappiamo che ti piace uccidere. Sappiamo tutto di te. Tu sei pazzo.»

Io dissi: «Ti avviso: se non alzi i tacchi all'istante, non te la immagini nemmeno la fine che farai. Può darsi che tu sopravviva per un minuto o due, ma ti assicuro che a te sembreranno un'eternità e pregherai Dio con tutta l'anima perché ponga fine alle tue sofferenze.» Imbracciai il fucile e lo puntai all'altezza del suo stomaco. Poi feci una cosa sconcertante... una cosa che mi lasciò di sale. Scoppiai a ridere. E alla fine fui sopraffatto da una tale disgusto di me stesso che per un attimo temetti di non riuscire a trattenere il vomito.

 

Dalla deposizione di Hank Speltz:

15 luglio

Ero lì di fronte a Miles e mi sono detto: se questa volta riesco a portare a casa la pelle, prometto solennemente di andare in chiesa tutte le domeniche, di pregare prima di andare a letto, di non dire più parolacce e di essere buono per tutto il resto della mia vita. Non avevo mai visto in vita mia uno sguardo come quello che aveva Miles quella mattina. Aveva la faccia di uno pronto a masticare il vetro e a mangiare polvere da sparo. Aveva due fessure al posto degli occhi e i capelli che volavano in tutte le direzioni. Quando fece partire il primo colpo pensai: il prossimo è per me. Perché lui sapeva chi ero, era a me che aveva consegnato la sua VW su al distributore. E io che lì non ci volevo nemmeno andare. Ci ero andato solo perché l'aveva detto Red Sunderson. Aveva detto, andiamo lì e parcheggiamo le macchine davanti a casa sua, così gli mettiamo addosso una strizza del diavolo. E poi lo sistemiamo per le feste. È lui che ha preso quella ragazza e l'ha nascosta da qualche parte. Così, io dissi, conta su di me, Red. Poi quando gli altri se ne sono andati e ho visto Roy e Don che restavano, ho pensato rimango anch'io a godermi lo spettacolo.

Miles era come un topo preso in trappola, come un animale schifoso costretto in un angolo. Ragazzi, avreste dovuto vedere il disastro che ha fatto con quella tanica di benzina. Non gli importava di quello che succedeva. Scommetto che era pronto perfino a rimetterci le penne.

Così, quando mi ha lasciato andare io me la sono data a gambe. Sissignore, e senza pensarci due volte. Mi sono detto, lascia pure che sia qualcun altro a trovare quella ragazza. Ma poi quando sono tornato al garage ho fatto un bel lavoretto alla sua macchina; sì davvero un lavoretto con i fiocchi. L'ho sistemata in modo che non potesse andare a più di trenta o quaranta miglia all'ora. Così, anche se fosse scappato, non avrebbe potuto fare molta strada. Se non altro come meccanico so fare il mio mestiere.

Ma io lo sapevo che era lui il colpevole. Quel figlio di puttana. E sapete un'altra cosa? Lui voleva che la polizia lo prendesse, altrimenti perché mi avrebbe detto di chiamarsi Greening? Ditemelo voi.

 

Una voce che urlava: «Miles, bastardo! Bastardo!» Era Duane.

«Calmati» disse un'altra voce, più profonda e più sommessa.

«Brutto figlio di puttana, vattene di qui immediatamente.»

«Smettila, Duane, calmati. Adesso arriva.»

«Maledetto! Maledetto! Ma ti ha dato di volta il cervello?»

Apro cautamente la porta e vedo Duane paonazzo in volto che, per la rabbia, mi sembra perfino rimpicciolito. «Te l'avevo detto, fottuto bastardo. Te l'avevo detto di stare alla larga da mia figlia. E adesso voglio che mi spieghi che cosa diavolo significa questo.» Gira su se stesso con sorprendente agilità, poi, con un ampio gesto del braccio, mi indica le chiazze nere e giallognole di erba bruciata, il buco nella porta, i pezzi contorti della tanica di benzina e, indirettamente, la figura di Orso Polare in uniforme e quella di sua figlia Alison, che divora il sentiero che porta a casa sua. Arrivata davanti alla porta, Alison si volta e mi lancia un'occhiata che esprime paura, ma anche un avvertimento.

«Se ne stavano lì, seduti in macchina... seduti in macchina, dico, senza fare del male a una mosca, e a te che cosa salta in mente di fare? Una bomba. Guarda, guarda come hai ridotto il mio prato!» Poi pesta i piedi con rabbia, troppo infuriato per continuare a parlare.

«Ho cercato di chiamarti» dico a Orso Polare.

«Sei fortunato che non ti faccia fuori con le mie mani» grida Duane.

«Sono fortunato che non mi abbiano ucciso loro prima.»

Orso Polare appoggia con fermezza una mano sulla spalla di Duane. «Calmati» dice. «Dave Lokken mi aveva detto che mi avevi cercato, ma non pensavo ci fossero problemi. Credevo che potessi tollerare una manciata di ragazzi che ti guardavano dalla strada.»

«Stavano solo seduti in macchina... Non facevano del male a nessuno» riattacca Duane.

«Non pensavo che gli avresti dichiarato guerra.»

«E io non pensavo nemmeno che osassi strisciare dietro mia figlia» sibila Duane e io vedo le dita di Orso Polare serrarsi sulla sua spalla. «Ti avevo avvertito. Ti avevo detto di starle alla larga. Ma me la pagherai... te lo giuro.»

«Non è vero che se ne stavano semplicemente seduti in macchina. Quando hanno visto che telefonavo, la maggior parte se ne è andata, ma tre sono rimasti perché volevano me.»

«Hai visto chi erano, questa volta?»

«Uno era il ragazzo del garage, Hank Speltz. Poi c'era un tizio di nome Roy e un altro che non conosco; comunque era uno di quelli che mi hanno preso a sassate ad Arden.»

«Preso a sassate...» ringhia Duane, con un disprezzo così grande che rasenta la disperazione.

«Come hai fatto a ridurlo così?» Con il mento indica il prato, devastato dai solchi delle ruote.

«Hanno fatto quasi tutto loro. Ci sono passati con le macchine e con i camion. Avevano fretta di andarsene prima che arrivaste voi. Il resto l'ho fatto io. Ho gettato una tanica di benzina aperta su una sigaretta accesa. Non ero nemmeno sicuro che avrebbe funzionato. Tu lo sapevi che sarebbero venuti qui, vero?»

Orso Polare serrò i pugni. «Mi hai fregato di nuovo. Certo che lo sapevo. Pensavo che potessero aiutarti...»

«A restare fuori dai guai? Come Paul Kant?»

«Esatto.» Nel suo sorriso c'era quasi una nota di orgoglio per me.

«Tu e Duane eravate insieme? Insieme ad Alison?»

«Non osare pronunciare il suo nome, bastardo» dice Duane.

«Stavamo bevendo una birra al Bowl-A-Rama.»

«Ah, stavi bevendo una birra. Non stavi lavorando al nostro caso.»

«Nemmeno i poliziotti lavorano tutto il tempo, Miles» mi dice, e io penso: no, tu lavori tutto il tempo ed è per questo che sei pericoloso. Lui toglie la mano dal braccio di Duane e scrolla le spalle. «Volevo spiegare a Duane che tu ed io stiamo, come dire, ci stiamo aiutando a vicenda per cercare il colpevole di questi omicidi. Questo è un grande più a tuo favore, Miles e dovresti cercare di non dimenticarlo. Duane mi ha appena messo al corrente di un'idea balzana che ti è venuta in mente. A quanto pare hai tirato fuori di nuovo quella storia che ti avevo consigliato di lasciare perdere, non è vero Miles? Cose come queste mi fanno mettere in dubbio la tua capacità di giudizio. Voglio solo essere sicuro che tu abbia capito l'errore del tuo ragionamento. Il vecchio Duane non ti ha detto che avevi ragione, vero? Quand'è che ti sei messo in testa questa stupida idea?» Mi guarda con espressione franca e amichevole. «Sei stato tu, Duane?»

«Io gli ho solo detto che avrebbe dovuto parlare con te.»

«Be', vedi, questo l'ha messo tutto in subbuglio e l'ha reso sospettoso.»

«L'ho capito su alla cava. Ho chiesto a Alison di urlare e ho appurato che dalla strada non si sente niente.»

Duane si mette a girare in tondo pestando i piedi. «Tu eri svestito.»

«Calmati, Duane, o peggiorerai la situazione. Il vecchio Miles giungerà alle conclusioni sbagliate se tu divaghi. Dunque, Miles, Duane non ha mai detto che la tua idea era giusta. Comunque adesso glielo chiediamo di nuovo. Eri là quella notte?»

Duane scuote la testa, fissando rabbiosamente il terreno.

«È ovvio che non c'eri. È tutto scritto nei verbali fatti da mio padre. Tu hai preso la 93 e poi hai girato in direzione di Liberty. Giusto?»

Duane annuisce.

«Eri furioso con quella piccola Greening e non vedevi l'ora di essere lontano mille miglia da lei, non è così? E naturale.» Duane annuisce di nuovo. «Vedi, Miles, se tu chiedi ad una ragazza di urlare senza spiegarle il perché, lei non può dare il massimo, intendo dire che non può gridare come grida una ragazza che viene aggredita. Vedi dove sta l'errore? Comunque, se continuerai a pensarci, finirai per cadere nella fossa che ti stai scavando con le tue stesse mani. È per questo che io ti consiglio di smettere e di chiudere con quella vecchia faccenda.»

Non ha alcun senso protrarre questa commedia. "Quella piccola Greening" la figura sottile e intensa che punta il muso verso la fattoria? Quella piccola Greening il fuoco nel bosco e la corrente di aria gelida? Sento l'odore dell'acqua fredda intorno a me.

Penso cose che non vorrei pensare e ricordo le parole di Rinn. La colpa mi soffoca.

Per ragioni diverse, anche Duane non ha voglia di continuare. «Al diavolo questa storia» dice. Poi si raddrizza, solleva su di me la sua piccola faccia bianca e rossa e mi rivolge occhiate di fuoco. «Ma io ti avevo avvertito di stare lontano da mia figlia.»

«È stata lei a chiedermi di accompagnarla.»

«Ah, è stata lei? Questo è quello che dici tu. Immagino che adesso vorrai anche darmi da bere che non ti sei spogliato davanti a lei.»

«Ma era solo per nuotare. È stata lei a spogliarsi per prima. E anche il ragazzo si è tolto i vestiti.»

Di fronte a Duane non posso confidare a Orso Polare i miei timori su Zack. Ho già parlato anche troppo perché Duane mi sembra sul punto di esplodere un'altra volta.

Tremo e sento il vento freddo.

«Certo» dice Duane. «Come no. Sempre come dici tu.» Gira il busto verso di me. «Ma se ti vedo che fai il cretino con lei, non aspetterò che sia qualcun altro a metterti addosso le mani. Ti sistemo io.» Eppure non c'è convinzione nelle sue minacce perché in fondo non gli interessa un granché: si aspetta sempre di essere tradito dalle donne.

Orso Polare ed io lo osserviamo mentre si avvia verso casa sua. Poi lui si volta verso di me. «Sembri un po' malaticcio, Miles. Sarà forse tutto quel nuoto nudo che fai.»

«Chi di voi due l'ha violentata?»

«Calmati, Miles.»

«Oppure avete fatto a turno?»

«Sto cominciando a dubitare di nuovo del tuo senno, Miles.»

«E io sto cominciando a dubitare di tutto.»

«Non hai sentito quello che ti ho detto prima a proposito della fossa che ti stai scavando con le tue stesse mani?» Orso Polare fa alcuni passi verso di me, grande, sicuro di sé e seriamente preoccupato. Io noto le macchie blu scuro di sudore sulla sua uniforme e le chiazze bluastre che gli sottolineano gli occhi. «Gesù, Miles, tu devi essere pazzo a metterti a gettare delle bombe contro degli onesti cittadini... metterti nei guai...» Si muove con lentezza guardinga e io penso ci siamo: adesso scoppia e mi prende a pugni. Invece lui si ferma e si passa una mano sul viso.

«Presto sarà tutto finito, Miles. Molto presto.» Si allontana e l'aspro connubio di odore di sudore e di polvere da sparo, che mi ha investito come una nuvola di fumo, diminuisce di pari passo. «Gesù Cristo, Miles. Che cos'è che hai detto a Dave Lokken riguardo al pomello di una porta?»

Non posso rispondere.

Quella sera e tutte le sere che seguirono, chiusi il rubinetto del gas che Tuta Sunderson mi aveva mostrato. E al mattino, quando lei si trascinava in cucina e cominciava a tossire, pestare i piedi, schiarirsi la gola, insomma a produrre la serie infinita di rumori con cui esprimeva il proprio cupo scontento, non appena si accorgeva di quel mio ripetuto gesto di prudenza, mi comunicava con un possente grugnito la propria sospettosa disapprovazione, e forse anche il proprio disprezzo. Mi sarebbe piaciuto licenziarla, se non avessi avuto la certezza che, come Bartebly, sarebbe comunque ritornata. Il giorno successivo alla visita di Hank Speltz e compagnia, non appena sentii il consueto concerto di tosse, pestaggio di piedi eccetera, scesi al piano di sotto per chiederle se fosse stata a conoscenza del piano dei suoi compaesani. Ridicolo. «Se fossi al corrente di cosa? Di quello che sarebbe accaduto? Perché, che cos'è accaduto?» Non aveva fatto commenti sullo stato del prato né sul buco nella porta della veranda. Le dissi che pensavo che suo figlio Red avesse a che vedere con quella spedizione punitiva. «Red? Red non si immischia mai in niente. Allora quante uova hai deciso di buttare via oggi?»

Per diversi giorni non feci altro che lavorare; e lavorare indisturbato, perché, apparentemente, nessuno aveva intenzione di parlare con me. A parte l'immancabile dimostrazione mattutina della sua infinita capacità di fare chiasso, Tuta Sunderson non apriva bocca. Anche Duane se ne stava per conto suo; anzi per essere sicuro di non dovermi guardare in faccia, le rare volte che passava accanto alla fattoria, girava la testa dalla parte opposta. Nemmeno sua figlia, che presumibilmente le aveva prese, o era stata ammonita in modo meno violento a tenersi alla larga dal sottoscritto, si faceva più vedere. A volte, dalla finestra della mia camera da letto, la vedevo attraversare in fretta il viottolo, il viso inespressivo, diretta alla rimessa o al granaio; ma non veniva più alla fattoria, ad ascoltare i miei dischi e a frugare nella mia dispensa.

Di notte, capitava spesso che il rumore della moto di Zack, che il ragazzo spegneva quando arrivava all'altezza dei noci, mi destasse dal sonno che mi aveva sorpreso alla scrivania, la matita ancora stretta fra le dita e il bicchiere del cocktail poco distante. Scrivevo. Mi addormentavo. Bevevo. Accumulavo senso di colpa. Speravo che i Michalski avrebbero presto ricevuto una cartolina dalla loro figlia scomparsa. Speravo che Orso Polare avesse ragione e che presto quella brutta storia sarebbe finita. Volevo andare via.

Di notte avevo paura.

Rinn smise di rispondere al telefono e ogni sera io dicevo a me stesso che il giorno dopo sarei andato a trovarla. Le telefonate anonime cessarono, sia da parte di Alito di Cipolla sia da parte dell'altra creatura misteriosa, chiunque essa fosse. Chissà, forse era tutta colpa di quel vecchio telefono che ogni tanto si guastava.

Non ricevetti più nemmeno lettere bianche e solo un'altra missiva da parte dei miei fans. Il messaggio era scritto in stampatello su un foglio di carta a righe e diceva testualmente: TI PRENDEREMO ASSASSINO. Lo misi in una busta e lo spedii, con allegato un mio biglietto, a Orso Polare.

Mi sembrava di essere morto.

Più volte pensai: ti sei sbagliato su alla cava. Il fatto che avesse quelle bottiglie di Coca nel furgoncino non è una prova; e neppure la presenza di quel pomello, che poteva aver preso da dove io lo avevo gettato, costituiva una prova. E poi riflettei a lungo sul taglio che Zack si era procurato alla mano.

Mi dissi: non è affar tuo. E poi ripensai al disco che aveva dedicato "alle persone perdute."

E rividi Alison Greening, fatta di fronde e di corteccia d'albero, che veniva verso di me. Ma i pensieri che seguivano quella visione non potevano essere veri.

Parlare con Orso Polare era impossibile. Non aveva neppure risposto al biglietto che gli avevo inviato insieme alla lettera minatoria che avevo ricevuto.

Quando, finalmente, lunedì mattina il telefono squillò, pensai che si trattasse di Hovre, ma quando udii la voce che mi salutava e che pronunciava il mio nome, mi si profilò nella mente l'immagine di un uomo curvo e affamato, con i lunghi riccioli neri appiccicati alla testa e il viso da vecchio. «Miles» disse. «Mi avevi detto di telefonarti se avessi avuto bisogno di aiuto.» Aveva la voce secca e aspra.

«Certamente.»

«Devo uscire di qui. Sono rimasto senza cibo. Quel giorno che sei venuto a trovarmi, ti ho mentito quando ti ho detto che uscivo. In realtà era già un sacco che non mettevo piede fuori di casa.»

«Lo so.»

«Chi te l'ha detto?» La voce gli vibrò per la paura.

«Non ha importanza.»

«Hai ragione tu, forse non ha importanza. Ma io non posso più restare in città. Penso che abbiano in mente di fare qualcosa. Adesso si sono messi in più di uno a sorvegliare la mia casa e a volte li vedo parlare, fare piani. Ho paura che abbiano intenzione di fare irruzione qui dentro e di uccidermi. E sono due giorni che non mangio. Se... se riesco a scappare, posso venire su da te?»

«Certo, che puoi. Potrai stare alla fattoria tutto il tempo che vorrai. Se è necessario, sono anche in grado di procurarmi un fucile.»

«Anche loro hanno i fucili, le armi non servono... Io devo solo riuscire a fuggire di qui.» Nelle lunghe pause fra una frase e l'altra, sentivo il suo respiro affannoso.

«Ma la tua macchina non va, come pensi di arrivare fin quassù?»

«Verrò a piedi e, se incontrerò qualcuno, mi nasconderò in qualche fosso o in qualche campo. Stasera.»

«Ma sono dieci miglia!»

«Non ho altra possibilità.» Poi con una nota di funereo umorismo nella voce, aggiunse: «Non penso che troverei qualcuno disposto a darmi un passaggio.»

Verso le nove e mezza, quando il cielo cominciò ad imbrunire, mi misi in attesa, anche se sapevo che sarebbe arrivato solo dopo parecchie ore. Feci il giro della vecchia casa, scrutando i campi dalle finestre del primo piano, nella speranza di vedere la sua figura magra che si avvicinava. Alle dieci, quando fu buio completo, accesi soltanto la luce del mio studio, in modo che nessuno potesse vederlo attraversare il prato. Dopodiché mi sedetti sul dondolo della veranda e restai in attesa.

Gli ci vollero quattro ore. Alle due in punto udii un fruscio provenire dal fossato dietro il filare dei noci: alzai di scatto la testa e lo vidi arrancare attraverso il prato devastato. «Sono nella veranda» gli sussurrai e gli aprii la porta.

Nonostante l'oscurità, vidi che era esausto. «Stai lontano dalle finestre» gli dissi mentre lo accompagnavo in cucina. Accesi la luce. Paul si accasciò sul tavolo boccheggiando, i vestiti coperti di terra e di frammenti di paglia. «Ti ha visto qualcuno?» Scosse la testa. «Aspetta che ti preparo qualcosa da mangiare.» «Sì, ti prego» mi supplicò.

Mentre friggevo le uova con la pancetta, lui rimase in quella posizione prostrata, gli occhi stravolti, i muscoli tesi, le ginocchia divaricate. Gli porsi un bicchiere d'acqua. «I piedi mi fanno un male terribile» si lamentò. «E mi fa male anche un fianco. Sono caduto su uno spuntone di roccia.»

«Qualcuno ti ha visto uscire?»

«Se qualcuno mi avesse visto a quest'ora non sarei qui.»

Lo lasciai recuperare le forze, mentre le uova friggevano.

«Hai una sigaretta, per caso? Le mie le ho finite sei giorni fa.»

Gli lanciai il mio pacchetto. «Cristo, Miles...» disse, ma non riuscì ad aggiungere altro. «Cristo...»

«Conservalo.» lo ammonii io. «Le uova sono quasi pronte. Mangia un po' di pane nel frattempo.» Era così stanco che non aveva neppure visto la pagnotta che avevo appoggiato in mezzo alla tavola. «Cristo...» ripeté e ne prese un pezzo.

Quando gli misi davanti il piatto con le uova, le mangiò avidamente, senza dire una parola, come un galeotto evaso di prigione.

Quando ebbe finito, spensi la luce e, procedendo a tentoni, raggiungemmo il salotto. Vedevo l'estremità incandescente della sua sigaretta che bruciava nella stanza buia, seguendo l'oscillazione lenta e regolare della sedia a dondolo su cui si era seduto. «Hai niente da bere? Scusami Miles, tu mi stai salvando la vita.» Ebbi l'impressione che si fosse messo a piangere e fui felice che la luce fosse spenta. Andai in cucina e ritornai con una bottiglia e due bicchieri.

«Buono» disse dopo aver tracannato il suo drink. «Che cos'è?»

«Gin.»

«È la prima volta che lo bevo. Mia madre non voleva alcolici in casa e io non ho mai voluto andare al bar. Non abbiamo mai bevuto niente di più forte della birra e anche quella solo una o due volte. È morta di cancro al polmone. Fumava come una ciminiera. Come me.»

«Mi dispiace.»

«È stato tanto tempo fa.»

«Adesso che cosa hai intenzione di fare, Paul?»

«Non lo so. Andare da qualche parte. Nascondermi. Cercare di raggiungere qualche grossa città e tornare solo quando sarà tutto finito.» La sigaretta si illuminava quando lui aspirava, e la punta rossa si alzava e si abbassava seguendo il movimento regolare della sedia. «È accaduto di nuovo, un'altra ragazza. È scomparsa.»

«Lo so.»

«È per questo che avevano intenzione di farla finita con me. Manca da più di una settimana. L'ho sentito alla radio.»

«Michael Moose.»

«Esatto.» Scoppiò in una risatina debole e priva di allegria. «Forse tu non lo conosci Michael Moose. Peserà centocinquanta chili e succhia continuamente caramelle alla menta. E grottesco. Ha i capelli lisci appiccicati alla testa, gli occhi da porco e due minuscoli baffetti alla Oliver Hardy. Sembra appena uscito da Babbit. Imita la voce di Walter Cronkite e non è mai riuscito a trovare lavoro al di fuori di Arden; quando passa per strada i bambini gli ridono dietro, ma nonostante tutto lui è migliore di me. Per gli abitanti di Arden almeno. Lo trovano buffo, lo prendono in giro, ma lo rispettano. Be', forse questo è troppo; diciamo che, lo considerano uno di loro. E sai perché?»

«Perché?»

La sua voce divenne piatta e amara. «Perché sanno che da giovane usciva con le ragazze, ragazze che tutti conoscevano, e perché si è sposato. Perché sanno, o per lo meno dicono, che abbia una donna a Blundell. Una rossa che fa la centralinista.»

La sigaretta vagò nell'aria e, nell'oscurità mi parve di intravvedere il profilo di Paul che si stava portando il bicchiere di gin alle labbra. «Ecco perché. È uno di loro. E lo sai, invece, qual è la mia colpa?» Trattenni il respiro. «Che non sono mai uscito con una ragazza e non ho mai raccontato barzellette sconce. Non mi è nemmeno capitato di ritrovarmi fra le mani una ragazza morta, come è capitato a te, Miles. Capisci? Così loro hanno creduto che io fossi quello che pensavano. Diverso. Non come loro. Come qualcosa di malvagio che conoscevano.»

Rimanemmo a lungo in silenzio, ciascuno niente più che una vaga sagoma per l'altro. «Ma per me non è sempre stato così. Non importava che io fossi, diciamo, meno robusto degli altri bambini, quando eravamo tutti piccoli. Alle elementari. Le elementari per me sono state un paradiso. Le cose iniziarono a mettersi male solo quando andai alle medie. Io non ero sveglio. Non ero come Orso Polare. Non ero bravo negli sport e non correvo dietro alle ragazze. Fu allora che cominciarono a parlare di me. Cominciai ad accorgermi che gli altri non volevano che frequentassi i loro figli quando fui costretto a lasciare la scuola.» Si chinò e cercò qualcosa per terra. «Posso berne un altro goccio?»

«Certo. La bottiglia è sul pavimento, vicino alla tua sedia.»

«E così, adesso, quando questo ammirevole soggetto ha cominciato ad andare in giro a squartare ragazze, hanno subito pensato che fossi io. Oh, sì. Paul Kant. Non è mai stato tutto giusto quello, vero? Un gran mammone. Non del tutto normale, in una società in cui la più grande virtù è quella di essere normali. E poi c'è anche un'altra cosa, un guaio che mi è capitato. Stupide canaglie. Mi hanno arrestato e mi hanno picchiato. Per non aver fatto niente. Te l'hanno raccontato?»

«No» mentii. «Non ne so nulla.»

«Sono stato costretto ad andare in ospedale. Per sette mesi. E tutti i giorni dovevo prendere delle piccole pillole. Per non aver fatto niente. Quando sono uscito avevo tutti gli occhi addosso. Il solo lavoro che riuscii a trovare fu da Zumgo's, in mezzo a quelle donne scostumate. Cristo. E lo sai come ho fatto ad arrivare qui questa sera? Sono dovuto uscire di nascosto da casa mia e poi ho dovuto attraversare le strade a zigzag, come un cane. Lo sai che cos'è successo al mio cane, Miles? Lo hanno ucciso. Una notte, uno di loro è entrato nel mio cortile e l'ha strangolato. L'ho sentito guaire, povera bestia.»

Pensai al piccolo muso da scimmia che si contorceva. La stanza era impregnata di odore di gin e di sigarette. «Cristo.» Ebbi l'impressione che avesse ricominciato a piangere.

Poi, ad un tratto riprese: «Allora, che cosa ne pensi, Miles Teagarden? O stai lì solo ad ascoltare? Che cosa ne pensi?»

«Non lo so» dissi io.

«Tu eri ricco. Tu venivi qui d'estate, ma poi tornavi nelle tue scuole private. Tu hai potuto frequentare un'università costosa, fumare la pipa, entrare in qualche confraternita. Poi ti sei sposato, hai preso la laurea, sei andato a vivere a New York. Tu puoi permetterti di andare in Europa, di sfasciare automobili, di comprare vestiti dei Fratelli Brooks e, che ne so, di fare quello che fai: insegnare inglese all'università. Penso che prenderò un altro po' del tuo gin. » Si chinò e sentii il tintinnio della bottiglia contro il bicchiere. «Oh, ne ho versato un po' sul pavimento.»

«Non importa.»

«A te non sarebbe successo, vero Miles? Mi sto ubriacando. Sei tu, Miles? Sei tu? Avanti, sputa il rospo.»

«Sono io che cosa?» Ma avevo capito.

«Sei tu il soggetto ammirevole? Ti sei preso qualche giorno di riposo dalla tua vita mondana e sei venuto qui a fare a pezzi qualcuna delle nostre ragazze?»

«No.»

«Be', nemmeno io. E allora chi è?»

Abbassai gli occhi. Prima che avessi deciso di raccontargli di Zack, lui aveva ripreso a parlare.

«No, non sono io.»

«Lo so. Io penso...»

«Non sono io, te lo garantisco. Sono loro che vogliono incolpare a tutti i costi me. O te. Di te non posso dire niente, però sei gentile con me. Così gentile. Probabilmente, a te nessuno ha mai strangolato il cane. Ma la gente come te ce l'ha un cane? Sì, magari un levriero russo o un cane lupo. O forse un cucciolo di ghepardo al guinzaglio.»

«Paul, io sto cercando di aiutarti» gli dissi. «Tu ti sei fatto un'idea ridicola del genere di vita che conduco.»

«Oh-oh, mi dispiace, non volevo offenderti. Sai, io sono solo un povero ragazzo di campagna. Un povero imbecille da compatire. Comunque, ti spiegherò perché non posso essere io l'assassino. Vedi, io non andrei mai dietro ad una ragazza. Hai sentito quello che ti ho detto?»

Avevo sentito, ma speravo che non si sarebbe torturato continuando a parlarne.

«Hai sentito?»

«Si.»

«E hai capito?»

«Si.»

«Sì, perché io sono uno di quelli che lo fa con i ragazzi, non con le ragazze. Non è buffo? È per questo che non posso essere io. Mi sarebbe sempre piaciuto farlo, ma in realtà non l'ho mai fatto neanche con loro. Non ne ho mai neppure toccato uno. E in ogni caso non gli farei certo del male. Non ho mai fatto del male a nessuno, io.»

Se ne stava lì, stravaccato nella sedia a dondolo, con la sigaretta che gli si illuminava fra le labbra. «Miles?»

«Si.»

«Lasciami solo.»

«È importante per te restare solo, adesso?»

«Va via di qui, Miles.» Stava piangendo di nuovo.

Anziché uscire dalla stanza, mi alzai e mi avvicinai alla finestra che si affacciava sulla veranda e sulla strada. Non vedevo niente, se non la massa quadrata del mio viso riflesso nel vetro e, oltre quello, le maglie spezzate della zanzariera. I campi erano immersi nella più cupa oscurità. Paul bevve rumorosamente il suo gin. «D'accordo» dissi. «Ti lascio da solo, ma fra un po' ritorno.»

Salii di sopra e mi sedetti alla scrivania. Erano le tre e un quarto. Dovevo trovare una soluzione per la mattina. Se gli uomini di Arden avessero fatto irruzione nella casa di Paul e avessero scoperto che se ne era andato, la notizia sarebbe arrivata quasi subito all'orecchio di Orso Polare. E se avessero fatto irruzione in casa sua, poteva soltanto significare che si erano convinti che fosse lui e non io l'assassino di quelle ragazze. Però, non trovandolo avrebbero potuto pensare di venirlo a cercare a casa mia e se una banda di teppisti fosse venuta alla fattoria e ci avesse trovato insieme, per noi due le cose si sarebbero messe davvero male. In quel caso non mi sarebbe bastato il fucile di Duane per salvarmi la vita. Sentii il rombo di una macchina che si metteva in moto e trasalii. Drizzai le orecchie ma non udii più nulla.

Passò un quarto d'ora: un tempo più che sufficiente per permettere a Paul di riprendersi, pensai. Mi alzai in piedi e mi accorsi di quanto fossi stanco.

Scesi le scale ed entrai nel salotto immerso nell'oscurità e pervaso dall'odore spesso del gin e del fumo. Il mozzicone acceso di una sigaretta si stava lentamente consumando nel posacenere. «Paul» chiamai, avvicinandomi alla sedia a dondolo. «Paul, aspetta che ti porto una coperta. Poi ti spiego il piano che ho ideato per domani.»

Mi fermai di colpo. Vedevo l'estremità della sedia riflessa nella finestra, ma il profilo del legno non era interrotto dalla sagoma della testa di Paul. La sedia era vuota. Paul non era più nella stanza.

Capii immediatamente quello che era successo, ma accesi ugualmente la luce per averne la conferma. Il bicchiere e la bottiglia di gin, per tre quarti vuota, erano per terra, accanto alla sedia. Nel posacenere, la sigaretta si era quasi consumata fino al filtro. Andai in cucina e aprii la porta del bagno. Se ne era andato appena io ero salito di sopra. Imprecai ad alta voce, per metà furioso con me stesso per averlo lasciato solo, e per metà disperato.

Attraversai la veranda e uscii sul prato. Non poteva essere andato lontano. Poi ricordai il rombo della macchina che avevo udito dallo studio e mi misi a correre.

Quando raggiunsi la strada, girai istintivamente a destra e mi precipitai verso la fattoria dei Sunderson, in direzione di Arden. Dopo meno di un minuto mi fermai: forse era andato verso sinistra, verso la valle - io non sapevo nemmeno che cosa ci fosse da quella parte. O forse era fuggito per i campi, come aveva fatto prima per arrivare alla fattoria. Me lo immaginai accovacciato dietro i fusti del granoturco o nascosto dietro qualche costruzione, straziato dalla paura e dal disprezzo di sé. Mi dissi che non aveva nessun posto dove andare, davvero nessuno, e che quindi, sarebbe tornato alla fattoria prima dell'alba. Feci dietro-front e arrancai verso casa. Quando arrivai all'altezza del vialetto d'accesso, esitai e proseguii per alcune centinaia di metri lungo la strada. Ma era inutile, non si vedeva niente. L'avrei potuto trovare solo se lui me lo avesse permesso. Ritornai sui miei passi e, arrivato alla fattoria, mi sedetti sul dondolo della veranda in attesa. Un'ora, calcolai: non può tardare più di un'ora. Sarei rimasto lì ad aspettarlo. Del resto, stanco com'ero era impensabile che sarei riuscito a prendere sonno.

 

Invece, un'ora più tardi fui svegliato di soprassalto da un rumore che, sulle prime, non riuscii a riconoscere. Un gemito assordante e convulso, il suono di una furia meccanica, di un terrore meccanico: proveniva da qualche parte alla mia destra, ed era così forte e così vicino da alterare il mio senso dello spazio. Per un attimo credetti di essere a New York, di essermi svegliato a New York prima dell'alba. Ci misi un po' a riacquistare coscienza del luogo in cui mi trovavo e a riconoscere la natura di quel suono penetrante: era la sirena dei pompieri.

Balzai in piedi. Era da poco spuntata l'alba e una nebbia grigia ammantava i campi e la strada. Mentre tendevo l'orecchio, per cercare di localizzare il punto da cui proveniva l'urlo della sirena, il frastuono cessò. Girai su me stesso e aprii con impeto la porta che dava nel salotto. La bottiglia e il bicchiere erano per terra e il mozzicone di sigaretta spenta pencolava dal posacenere: era tutto come l'avevo lasciato un'ora prima e Paul Kant non era tornato.

Intirizzito, ma con la consapevolezza di avere poco tempo a disposizione, uscii sul prato. La nebbia riempiva i solchi provocati dalle ruote e nascondeva i segni del fuoco. Avanzai, incespicando, fino al vialetto, dimenticandomi completamente della Nash e arrivai sulla strada. Poi, cominciai a correre. In fondo, in direzione della superstrada, il cielo color grigio scuro era soffuso di rosso.

Quando arrivai all'altezza della fattoria dei Sunderson, dovetti smettere di correre e limitarmi a camminare ad una velocità compatibile con il dolore che mi trafiggeva il petto. Non appena raggiunsi il vecchio edificio della scuola, però, ripresi a corricchiare fino alla chiesa. La rupe rossa di pietra arenaria nascondeva il colore vermiglio del cielo. Andy's pensai e mi costrinsi a ricominciare a correre. Mi giungevano alcune voci di uomini e il rumore metallico di qualche macchina in funzione. Superato l'angolo aspro della rupe, accelerai il ritmo. L'autopompa antincendio era ferma nel parcheggio accanto ad Andy's e poco più avanti, a fianco delle pompe di benzina c'era un'auto della polizia. Sentii il rumore del fuoco, il rumore terribile e rabbioso della devastazione. Ma non era Andy's che stava bruciando, perché vedevo le fiamme guizzare dietro l'alta facciata bianca del negozio.

Pensai che forse lo scoppio del motore che avevo udito quella notte apparteneva ad una moto e non ad una macchina; ero troppo stanco per capire la differenza.

Girai intorno al negozio.

Dapprima vidi solo la facciata della Casa dei Sogni avvolta dalle fiamme, come immagino che spesso Duane abbia desiderato vederla. Sembrava trasparente, scheletrica. Le cornici delle porte e delle finestre pendevano cupe, come ossa sospese in mezzo a grandi lingue di fuoco arancione. Tre pompieri con gli stivali di gomma e il casco di metallo stavano direzionando il getto dell'acqua alla base della costruzione senza apprezzabili risultati. Nuvole di vapore si levavano insieme al fumo. Poi vidi Orso Polare, in piedi accanto all'autopompa, intento ad osservarmi placidamente. Non aveva l'uniforme, ma indossava una giacca sportiva sformata e un paio di pantaloni marroni. Mi bastò un'occhiata per capire che aveva trascorso tutta la notte in bianco. La sua insonnia l'aveva tenuto inchiodato al divano e alla bottiglia di Wild Turkey fino a quando gli era giunta la telefonata dalla stazione dei pompieri.

Poiché era ancora buio, le fiamme arrossavano la terra e il cielo e il retro del negozio di Andy. Mi avvicinai e sentii il calore del fuoco. Dave Lokken, in uniforme, stava parlando con Andy e sua moglie, che lo fissavano con un'espressione di stupito terrore dipinta sul volto pietrificato: le fiamme riverberavano sulle loro guance, conferendovi un sano color pesca. Mi notarono tutti e tre nello stesso istante e mi guardarono come se fossi uno zombie.

Orso Polare mi fece segno di raggiungerlo. Io continuai a fissare il fuoco: ad un tratto le prime travi crollarono, sollevando uno zampillio di scintille.

«Ti ha svegliato la sirena?» mi chiese.

Io annuii.

«Sei arrivato qui di gran carriera. Dormivi vestito?»

«Non ero a letto.»

«Nemmeno io.» Mi fissò rivolgendomi uno di quei suoi tristi sorrisi paterni. «Ti interessa la storia? Tanto te la devo raccontare comunque. Potrebbe interessarti.»

Guardai senza parlare un cumulo di coperte militari, gettate una sopra l'altra a metà strada fra la casupola in fiamme e l'emporio di Andy, e annuii.

«È chiaro che quei ragazzi non otterranno niente con quella pompa, ma almeno possono evitare che le fiamme si estendano alla proprietà di Andy Kastad. È tutto quello che possono fare. La chiamata è arrivata troppo tardi perché potessero intervenire in tempo per salvare quel piccolo aborto di Duane, anche se immagino che nessuno rimpiangerà che sia andato in fumo, meno di tutti Duane. Qualcuno avrebbe dovuto tirarlo giù già da un pezzo. È accaduto che Andy e sua moglie si sono svegliati appena in tempo per mettersi in salvo. Dicono di aver sentito un rumore e poi il fuoco. Sono saltati giù dal letto, si sono affacciati alla finestra e si sono presi una paura del diavolo.»

Mi voltai a guardare Andy e sua moglie e pensai che forse era vero.

«Così, la vecchia Margaret ha chiamato i volontari, mentre lui correva sul retro, non sa nemmeno lui a fare che cosa, forse a pisciarci sopra. E vede qualcosa. Lo sai che cosa ha visto?»

«No.» Orso Polare stava facendo ricorso al suo trucco preferito per accrescere la suspense.

«No, no davvero. A proposito, Miles, non è che per caso ieri sera hai visto il tuo amico Paul Kant?» Aveva piegato la testa da una parte e inarcato le sopracciglia; quella improvvisa digressione non lo aveva affatto messo a disagio: era un altro dei suoi soliti trucchi.

«No.»

«Uh-uh. Molto bene. Comunque, come stavo dicendo, Andy esce tutto agitato dalla porta di servizio, pronto a versare della birra o chissà che cos'altro sul fuoco, ma ad un tratto vede quest'oggetto nell'ingresso della casupola. Adesso lui è nelle tue stesse condizioni. Non riesce a capire di che cosa si tratti. Però pensa che farebbe bene ad avvicinarsi a dare un'occhiata. Corre verso la casa, afferra l'oggetto e lo trascina fuori. È per metà avvolto dalle fiamme. E quando capisce di che cosa si tratta, si precipita ancora dentro e chiama anche me, ma nel frattempo io e Dave siamo già usciti.»

«Non capisco il senso di tutte queste chiacchiere, Orso Polare. Qual è il punto?» Il calore del fuoco doveva essere diventato più intenso perché mi sentivo arrostire una guancia.

«Pensavo che l'avessi capito.» Mi appoggiò una mano sul braccio e mi condusse verso il negozio. «Il punto, Miles, è che non hai più motivo di preoccuparti. È tutto finito. Io avevo scelto il cavallo sbagliato, ma da questo momento tu sei libero come l'aria. È andata come ti avevo detto. Io ho perso, ma ha perso anche lui.»